21 Cap. 5 – “E come Eleonora”

(Giorno cinque)

Stanotte ho fatto un sogno, anzi dovrei dire due ore fa, visto che non ho più ripreso sonno. Adesso sono quasi le sette di mattina. Era fantastico, vivido a tal punto da farmi chiedere se fosse reale. Nel dormiveglia non mi sono reso conto fosse solo un sogno, tanto era forte la sua nitidezza. C’era questa donna, con un vestito nero e i capelli lunghi, sciolti. Mi saliva sopra, era senza biancheria e cominciava a dimenarsi dolcemente e a strusciarsi su di me. Ho cercato di riaddormentarmi per riprendere il sogno, ma niente, non ci sono proprio riuscito. Ho pensato a lungo chi fosse quella donna e pochi minuti fa il suo volto mi si è schiantato addosso, così all’improvviso, nel buio della mia stanza. Eleonora. Mia moglie. A novantanove anni suonati ancora riesco a sognarle certe cose. Ancora riesco a sognare lei.

Eleonora, la incontrai il 21 di maggio, data della nascita di mia madre, ma non credevo a queste cazzate. Lei era bellissima. Era il 1963 ed io avevo ancora ventisette anni, mentre lei li aveva già compiuti a gennaio. Era avanti a me di quasi un anno. In realtà era avanti a me di molte cose. Figlia di amici dei miei genitori, fu senza forse la cosa migliore della mia vita. Non credo sarò in grado di descrivervi Eleonora, non saprei da dove cominciare. Era sostanzialmente bella. Ma non bella oggettivamente, perché sappiamo tutti che la bellezza è meramente soggettiva, ma lei riusciva ad essere essenziale a tutti. Quando c’era lei, quelli con i gusti più diversi tra loro, con le opinioni più contrastanti, si ritrovavano d’accordo sul fatto che lei fosse, senza dubbio alcuno, la più bella donna che avessero mai visto. Ecco, lei era la più bella donna che chicchessia avesse mai visto.

Fece la sua apparizione in casa mia, per festeggiare il compleanno di mia madre. Ricordo che arrivai in ritardo quella sera e lei stava mostrando a quegli ospiti a me sconosciuti tutta la casa. Appena entrai li vidi tornare dal piano di sopra, come una delegazione e alla fine della fila c’era lei. Lei era lì, che veniva dall’alto verso di me. Il fiato mi si bloccò in gola. Eleonora trasformava ogni scala che scendeva in quella dell’Ariston.

“Io sono una donna e sono ciò che vuoi”. Era questo che mi disse quando ci conoscemmo. Io persi totalmente la testa per lei. Era arguta e intelligente. Aveva deciso di studiare medicina e diventare un chirurgo ed era quasi alla fine del suo percorso di studi in chirurgia generale. Con i suoi modi e la sua vita libera, ma allo stesso tempo vincolata alla responsabilità di un ruolo che le piaceva avere e mantenere, era riuscita a mitigare la mia parte hippie e fortunatamente a far si che prendessi le redini della mia vita, così da poter costruire quello che sono poi diventato.

− Operare è fantastico, sai. Tolta la parte che può far impressione, dato che mettiamo le mani dentro le persone, è strabiliante quello che facciamo.

Era cominciata così la nostra discussione al nostro primo appuntamento. Quel giorno m’innamorai di lei, perdutamente. Parlammo, mangiammo e bevemmo tanto, forse anche per questo si lasciò andare, conoscendo i suoi modi contenuti.

− Sai cosa sei tu – mi chiese.

− Cosa?

− Tu sei come la duodenocefalopancreasectomia.

− E che sarebbe?

− È l’asportazione della testa del pancreas. – Bevve.

− Sembra dolorosa.

− Solo se non ti anestetizzano. – Rise.

− E come mai sarei questa duodenocefalopancreasectomia?

− Perché è l’operazione più bella e soddisfacente che si possa fare. − Detto questo, si sporse e mi baciò. Lo ricordo ancora come se me lo avesse appena dato. Fu un bacio dolce, morbido. Si avvicinò lentamente e con un movimento costante poggiò le sue labbra sulle mie. Le sentii muoversi, piegarsi leggermente sul mio labbro superiore. Poi si staccò di un millimetro e lo fece di nuovo, allo stesso identico modo, su quello inferiore, facendomi nitidamente avvertire il suo respiro. Quando riaprimmo gli occhi, ero suo.

Il giorno dopo chiesi a Giovanni che diavolo fosse quell’operazione e mi spiegò, dopo aver anticipato che, anche se un medico, quello non era il suo campo, che l’asportazione della testa del pancreas era, se non in assoluto, comunque uno degli interventi più difficili di tutta la chirurgia addominale, della durata media di sei ore. Che meraviglia.

− E quindi ti ha baciato. Così, dopo averti parlato del pancreas.

− Sì.

− E poi siete andati a casa sua?

− Sì.

Giovanni era sempre più sbalordito. Non riusciva a capacitarsi del fatto che io potessi aver perso la testa in quel modo. Eppure era così. – Non capisco, tu eri quello che aveva la teoria definitiva dell’amore, pardonne moi, della relazione.

− Che vuoi dire, non ti capisco.

− Ma come, asserivi che era assurdo che ci si dovesse necessariamente innamorare, stabilire un modus operandi e andare avanti. Dicevi che due persone possono semplicemente frequentarsi, uscire, vedersi e farlo senza che questo debba implicare lo stare assieme, un fidanzamento o che so, il matrimonio.

− Beh, le cose cambiano.

− Accidenti, lo vedo.

Questo era successo in un arco di tempo talmente breve che a sorprendermi non ero soltanto io e chi mi conosceva di più lo notava. Era straordinaria Eleonora. Era riuscita dove tutti avevano fallito e il bello è che neanche io sapevo come avesse fatto. Ma era indubbiamente così. Nei giorni successivi ricordo che fummo un continuo raccontarci, conoscerci e lei era incredibile e sempre pronta a sorprendermi con la sua curiosità.

− Raccontami di te. Dimmi un tuo ricordo d’infanzia.

La guardai perplesso e poi risposi. – Ricordo che ogni volta che ero in macchina con mio padre, avrò avuto non più di quattro anni, mi faceva impaurire perché diceva che ci stesse per attaccare dall’alto un Coccosauro.

− Cosa diavolo è un Coccosauro?

− L’animale preistorico alato, l’unico in grado di volare.

− Un Pterodattilo.

− Lui lo chiamava Coccosauro, o forse ero io a chiamarlo così, non ricordo. Planava sul tettuccio dell’auto e cercava di sfondarlo col becco.

− E come finiva – chiedeva lei, con l’aria di chi a quella storia ci sta credendo davvero.

− Riuscivamo a sfuggirgli perché mio padre passava sotto un cavalcavia o dentro una galleria e quello sbatteva contro il cemento. Io mi ricordo che mi giravo a guardare e poi cominciavo a saltare sul sedile posteriore.

− Che gran figata.

Mi faceva rivivere cose che avevo dimenticato. Parlare con lei era come una dose di memoria. E la vita con lei era qualcosa di straordinario. Prendemmo casa e decidemmo di andare a vivere insieme. Manco a dirlo nessuno della nostra famiglia era d’accordo, ma non ci importava. Prendemmo casa e cominciammo a vivere. Le feste erano grandiose, i carnevali e i party a tema vissuti in casa e organizzati da noi erano unici. Non so come si sia potuta evolvere la vita delle feste fin dalla fine degli anni ’90, ma noi ce la godevamo davvero.

Ci preparavamo alla grande io ed Eleonora. Registravamo un lato di una cassetta a testa, con le musiche che più ci piacevano. Una sorta di equo compromesso. Ci costruivamo i vestiti di carnevale o delle tante feste a tema, da soli. Viaggiavamo. Viaggiavamo tantissimo. E poi facevamo l’amore ovunque, davvero ovunque. L’unica pausa della nostra vita la prendemmo per il nostro matrimonio. Il venticinque aprile del 1965 ci sposammo e dal viaggio di nozze continuammo la nostra vita felice. Era perfetto.

Fu lei a farmi la proposta di matrimonio. Era il 25 dicembre del ’64 e avevamo appena festeggiato, come sempre, il Natale e il mio compleanno insieme. Avevamo appena finito di fare l’amore, Eleonora si strinse a me e dopo un po’ partì con una delle sue solite domande imprevedibili, che proseguivano con storie improbabili. – Ti piacciono i gatti?

− Preferisco i cani, ma anche i gatti non sono male.

− Io li adoro. Adoro i gatti socievoli. Quando ero piccola, a casa mia, avevo un sacco di gatti e venivano anche dal vicinato appena mi sentivano arrivare.

− E come mai?

− Io li attiravo. Mi saltavano letteralmente addosso appena arrivavo e sai perché?

− No, dimmi perché.

− Perché non è vero che i gatti sanno essere solo schivi e opportunisti, loro sanno riconoscere anche i meritevoli, i buoni, quelli che grondano verità.

− E tu lo eri? Grondavi verità?

− Sì e credo di grondarne ancora. Vedi io ero salvabile. Ero capace di percepire la bellezza del mondo. E loro lo vedevano. E lo vedrebbero anche in te.

− Io grondo bellezza e verità solo quando tu sei con me.

− Ecco perché voglio starci per sempre – disse, salendo a cavalcioni sopra di me e scoprendo il suo bellissimo e tondo seno, − sposami.

Non aveva lasciato il minimo spiraglio per l’ipotetica comparsa di un “no” all’orizzonte, come risposta. La strinsi a me e quattro mesi dopo era mia moglie.

Ora io non voglio fare la predica, o sembrare noioso, ma vi assicuro che ci sono cose nella vita che vi stroncheranno in due, senza il minimo riguardo, se non vi prenderete cura di quelle cose. E queste cose di cui parlo, sono le cose più care al mondo, le cose a cui tenete di più. E accadrà, fidatevi, se non ne avrete la massima cura. Probabilmente le perderete per vostra negligenza e vi mancheranno o magari se ne andranno per loro volontà o perché la vita è la vita, non importa, ciò che più conta è che potreste non riprendervi più. Vi spazzeranno via, se non ci starete attenti e ritirarvi su non sarà facile. Poi vi resterà solo di lasciarvi andare alla più desolante rassegnazione o indossare un volto che non è il vostro e camminare tra le persone che non sapranno mai chi realmente voi siete.

− L’essere umano, a causa sua o per meriti o demeriti altrui, riesce sempre a distruggere tutto – mi disse una delle ultime volte che le parlai. Eravamo ormai entrambi maturi, entrambi stanchi. – L’essere umano riesce a compromettere ogni cosa. Ad arrivare a odiare anche le cose che più amava.

− Tu cosa odi che prima amavi, Eleonora?

− Te, credo. E tu, Firmato? Tu cosa odi che prima amavi.

− Me. O meglio una parte di me. E ho cominciato a detestare anche i gatti. E il mese di novembre. Adoravo il mese di novembre, il mese più bello che ci sia. Ora non lo è più. Non riesco a viverlo più.

Il nostro primo figlio, Bernardo, nacque due anni dopo il nostro matrimonio e noi eravamo le persone più felici della terra. Poi accadde altro, qualcosa cambiò, come cambia sempre tutto. Il tempo, apparentemente immutabile, stravolse tutto. È sempre il tempo che aggiusta o disfa ogni cosa. Ricordo quando la vidi la prima volta, come rimasi affascinato da quello che era e da quello che pensai fossimo diventati.

Chissà, forse un giorno, tu che stai ascoltando ti ritroverai in una situazione simile, a fissare una persona che come te aspetta qualcosa, in quella sua incerta vita. Sei lì. Bevi. Pensi. Sai che dovresti provarci e anche lei sa che dovrebbe. Continui a guardare, a bere e restare ancorato al bancone. Poi la musica sancisce la fine della serata e tutti a casa. Le esitazioni ce le ricorderemo per sempre. Per questo evitate di farlo, evitate di esitare. Il più delle volte vi sentirete in difetto, non all’altezza, magari sbagliati e probabilmente potrebbe anche essere vero, ma il solo fatto che non ne abbiate la certezza, anche se ci fosse una remota e fragilissima possibilità di cambiare il corso della vostra vita, vi deve spingere a rischiare, a non lasciare nulla di intentato. Voi lo dovete a voi stessi. Lo dovete a quello che potreste diventare. E magari, quando tutto questo finirà, potremo ricominciare da dove avevamo lasciato. E provare a sbagliare ancora.

Lascia un commento

Inizia con un blog su WordPress.com.

Su ↑