21 Cap. 9 – “I come Italia ’90”

(Giorno 9)

Probabilmente molti di voi, che state ascoltando la mia voce, sarete degli sportivi e la maggior parte, per calcoli statistici, sarà appassionata di Calcio. Beh, io lo ero e parecchio. Ma più che inutile accanimento, che spesso sfociava nell’odio viscerale per l’altra squadra al punto da insultare giocatori e tifosi avversari di ogni tipo, io amavo il gioco, la sana competizione e la mia appartenenza finiva dove cominciava quel mondo che, alla fine dei conti, con me c’entrava ben poco.

Solo in un’occasione il mio fervore calcistico veniva fuori e usciva il vero tifoso che è in me, cioè nelle partite dell’Italia. Breve riassunto storico per i più giovani. La nostra nazionale vinse il suo primo titolo nel ’34, un anno prima che nascessi io, in un mondiale contestatissimo, dove i nostri, pur di segnare, più che giocare a calcio picchiavano e ostacolavano i portieri avversari. Ma eravamo comunque devastanti, tanto che a mio parere avremmo vinto anche il primo torneo mondiale, quello del ’30 in Uruguay, dove non andammo per mancanza di fondi monetari. L’Uruguay non partecipò e nemmeno altre forti nazionali, a causa di scontri interni. Dopo l’europeo del ’36, vinto anch’esso, venne il turno del mondiale in Francia nel ’38, più contestato del precedente, che vincemmo ugualmente.

Quello che io ricordo e ho pienamente vissuto fu quello in Spagna, nel 1982. Ci andai anche, con mio figlio. All’ora avevo quarantasette anni, lui quindici. Straordinario mondiale. Poi vincemmo quello del 2006 in Germania e l’ultimo nel 2022 in Qatar. Lì avevo già ottantasette anni e fu l’anno in cui mi ammalai, quindi non lo seguii molto. Da quel momento in poi, basta calcio.

Ma il mondiale al quale sono più legato si svolse qui in Italia, nel magico 1990. Fu un’esperienza incredibile, sia per il calcio, sia per gli affari. Io ero nella piena maturazione della mia attività e quando quattro anni prima iniziarono i lavori, il boom economico che ne venne fuori coinvolse l’intera nazione e moltissime aziende. Io colsi ovviamente la palla al balzo e grazie al lavoro incrociato di Pucci e Nanni, il nostro unico problema divenne riuscire a contare i soldi. Detto questo, il 1990 me lo godetti da cima a fondo.

− To be number one. Running like the wind − cantava continuamente Pucci, completamente ubriaco già un’ora prima della partita d’inaugurazione, che vedeva in campo l’Argentina di Maradona, vincitrice uscente, contro il Camerun. − Playing hard, but always playing fair.

− Gesù Cristo, Pucci.  Ancora co’ sto Giorgio Moroder Project, ma ti sei fissato proprio. E canta “Notti magiche” come tutti. Fa’ “Notti magiche, inseguendo un gol…”.

− Tecnicamente si chiama “Un’estate italiana” − mi corresse Giovanni, − almeno la Nannini e Bennato l’hanno ribattezzata così, ma fa lo stesso. Oggi va bene quasi tutto.

− To be number one. Winning again and again − continuava imperterrito Pucci, agitando le braccia in segno di vittoria, − reaching higher through Italian sky.

− Ragazzi, ve l’ho portato, contenti? − Esordì Ermanno, entrando in casa con un enorme pupazzo coi colori dell’Italia. − Cavolo, mi sono perso l’inaugurazione, c’era anche il maestro Muti, vero?

− Il “Ciao” − gridò Alvise Clodoveo “Gigi” Pelitti, il fratello minore di Giovanni, uscendo come un pazzo dalla cucina, − ora vinceremo di sicuro, il Ciao porta una fortuna pazzesca, ragazzi, pazzesca.

− Oh, Gigi, hai quarantaquattro anni e ancora credi nella fortuna?

− Firmà, tu dovresti crederci più di me e poi sei solo undici anni più vecchio, mica tanti.

− Abbastanza.

− Abbastanza non è abbastanza.

Quella fu la prima di una lunga serie di serate calcistiche all’italiana. Certo i pareri erano discordanti. Pucci, pur essendo un indiscusso estimatore dello sfarzo, volto alla conquista di un benessere superiore che potesse contrastare con la violenta miseria dell’esistenza umana, per lo più decideva di rinunciare ai suoi vini pregiati per le più nostrane e fantozziane birre ghiacciate. Al contrario, Ermanno, che aveva sviluppato una passione per i distillati, non voleva sorseggiare altro. Tutti noi altri ci adattavamo, anche se Gigi era il più strano di tutti. Lui lavorava in Spagna, nell’ambasciata italiana e precisamente era il responsabile dei trattati esteri tra le due nazioni. Aveva seguito le orme del padre e adesso era in Italia per una lunga vacanza.

− Muoio di sete. Firmato, credo sia inutile chiederti se hai della Sidra, vero?

− Non so cosa sia.

− È una sorta di succo di mele, ma tutta un’altra cosa.

− Chiarissimo, comunque no.

− Non vorrei rompere, ma avresti della limonata?

− No.

− Acqua gassata?

− Ma a che ti serve? − Irruppe suo fratello Giovanni, che cercava di seguire la partita.

− Vorrei prepararmi un Tinto de Verano. Dissetantissima.

− Gigi − disse suo fratello, girandosi e portando l’attenzione di tutti su di se, − quando eri piccolo non eri così, che ti è successo?

− Incredibile − esplose improvvisamente Gigi, − ma che vuoi? Sto mica parlando con te, io. Realmente tu eres un dolor en el culo.

− Scusa, non ho capito.

− Sei un rompicoglioni.

− Gigi, calmati − intervenne Ermanno, − perché fai così, non ti ha detto nulla.

− No, lui fa sempre così. Non si può dire niente. È sempre a pressare, a dire, a fare. Insopportabile. Giovanni, sei insopportabile. E adesso guardiamo la partita e non mi parlare.

− Ma… io volevo solo…

− ¡Dios mío. Yo te ruego. Por favor. Por todos los cielos. Déjame en paz.

− Alla faccia dell’ambasciatore − dissi quasi sottovoce e tutti scoppiammo a ridere, compreso Gigi.

La sua era una personalità complessa. Era sempre stato un po’ schivo da piccolo e col tempo aveva forgiato un carattere che lo aveva portato al raggiungimento dei suoi obiettivi, sacrificando la docile purezza della sua famiglia, convogliata tutta nel fratello maggiore, per un approccio più brutale e iracondo verso il prossimo. Come l’Italia e la Spagna non fossero ancora entrate in guerra, questo rimaneva un mistero. Forse il suo lavoro lo sapeva fare bene e si sfogava con gli altri, ma nessuno ci toglieva dalla testa che covasse al suo interno intenti belligeranti, da mettere in atto quanto prima.

Il programma era semplice: distribuirci nelle case di ognuno, nei pub o dove ci avesse portato il vento, cercando di rimanere tutti insieme e godendocela il più possibile. L’intento era quello di abbandonare la pressione della vita che, nonostante gli indiscussi successi professionali, ci gravava addosso e ci lasciava un costante senso di malessere interiore.

− Ieri è stato fantastico. Non andavo allo stadio da una vita e veder segnare Totogol è stato il top.

− Assolutamente − confermai.

− Ma, dimmi − chiese Pucci, tra un boccone e un altro, − tu sapevi della mania di Vincenzo per l’Egitto?

− Assolutamente no. Oltre la pesca e la dissolutezza sociale, non sapevo che covasse una così fervente passione.

− Mi ha detto che vuole andare a vedere Inghilterra – Egitto alla Favorita di Palermo e ci vuole andare in treno, per “godersi la sensazione della trasferta”. Come se la squadra fosse la sua.

− Ci andremo insieme, lo accompagnerò. Me l’ha chiesto.

− Tu sei pazzo.

− Che avrei dovuto fare? Ci teneva. Perché non vieni con noi? Partiamo domani e stiamo tre giorni dai suoi parenti. Perché non ci raggiungi, anche dopo.

− Più di dodici ore di treno. Solo con me stesso. Morirei.

− Esagerato.

− Già che oggi mi hai svegliato e mi hai fatto rendere conto di respirare ancora.

− Morirai pazzo e solo − gli dissi.

− Lo spero.

Passammo la fase a gruppi e arrivammo agli ottavi di finale. La sfida adesso era più dura e la nostra eccitazione era direttamente proporzionale al grado di difficoltà del torneo. Gigi si era comprato una macchina fotografica e scattava di continuo fotografie, tanto i rullini, che teneva in borsa come un cacciatore di quaglie le cartucce, poteva permetterseli in quantità industriali. Quel 25 giugno, la serata vedeva l’Italia impegnata contro l’Uruguay.

− Ma sapete che ho beccato Roger Milla, ieri sera, con tutta la squadra, che girava tranquillamente per strada − esordì Gigi, durante il secondo tempo.

− Chi sarebbe Roger Milla? − chiese Ermanno.

− Ma l’attaccante Camerunense che ha segnato due gol, non si parla d’altro, − rispose Giuseppe, che di calcio non capiva nulla e l’unico suo rapporto col pallone era stato in una conferenza ai David di Donatello, dove ebbe il compito di spiegare le dinamiche mobili nel film Fuga per la vittoria.

− Ci siamo fatti due foto. Fue hermoso.

− Non lo sopporto quando parla in spagnolo − mi sussurrò all’orecchio suo fratello Giovanni.

− Ti prego, eh. Non facciamone un’altra che qui mi conoscono.

− E comunque la mia opinione è che…

“GOOOL” gridammo all’unisono tutti quanti, Aldo Serena aveva messo al sicuro il risultato su cross di punizione di Giuseppe Giannini. Due a zero e si volava ai quarti.

− Guardate che figata − aveva esclamato Ermanno, indicando una bolla che la birra aveva fatto sulla bocca della bottiglia, concedendosi il termine “figata”, frutto di un’inaspettata esaltazione calcistica, − foto, foto, foto, foto, foto…

Gigi non se lo fece dire due volte e si lanciò verso la sua Nikon FM2n, ma poco prima di scattare la foto, Pucci si sporse verso la bottiglia e con un soffio scoppiò la bolla di birra, dissipando i sogni dei due, che ammutolirono.

− Perché? − dissero Ermanno e Gigi contemporaneamente.

− Non esistono i sogni.

Credetemi, li adoravo. Tutti quanti. Quell’occasione, Italia ’90, come mille altre, era solo la scusa. Un’evasione. Eravamo tutti in bilico, nella disperata svolta in una curva troppo stretta, che non dava nessuna sicurezza e quelle battute, quei momenti, che adesso sono solo ricordi di un passato troppo passato, erano la nostra panacea. I freni a disco delle nostre auto su quella dannata curva a gomito. Eravamo davvero bellissimi.

La nostra nazionale proseguì la sua corsa alla coppa. Affrontò l’ostico Eire di Jachie Charlton e vinse uno a zero sempre grazie a Totò Schillaci, idolo indiscusso del mondiale. Quarti superati. Questa partita ricordo che la vidi con mio figlio, in casa da soli e fu davvero bello. Lui, allora ventitreenne, mi parlò anche di una ragazza che aveva conosciuto nel suo corso. Si chiamava Alba Fallace e studiava giurisprudenza a Milano. Mi disse che me l’avrebbe presentata quanto prima ed io non feci alcuna domanda.

La sera della semifinale, Italia – Argentina, eravamo in tre, carichi come molle. Io avevo lasciato a casa la mia donna del momento, una modella inglese amica di Pucci, lui ci avrebbe raggiunto quanto prima, Giovanni non riusciva a dormire perché il suo Giorgio, a sette anni, continuava a pisciarsi addosso, anche se sapevo perfettamente che il suo nervosismo non era a causa dell’urina di suo figlio e Vincenzo non stava fermo coi piedi, facendo tremare tutto il tavolino.

− Non hanno speranza. Napoli o non Napoli, Maradona o non Maradona, fischi o applausi, glielo sfondiamo ugualmente.

− Vincè, ti vedo carico. Palermo ti ha fatto bene.

− Sono state le arancine o i cannoli? − chiese Giovanni.

− È stata Sabrina Salerno.

− La cantante?

− Sì, proprio lei.

Ci guardammo sconvolti, dimenticandoci per un attimo la partita e immaginandoci il colpaccio del professor Vincenzo Guerra che si era dato alle showgirl. − Te la sei scopata? − Chiese timidamente Giovanni.

− Ma no − ci deluse.

− E cosa allora?

− È che sta entrando sulla cresta dell’onda della televisione italiana. Fa film, show, sempre mezza nuda. È diventata una fregna allucinante. Spero arrivi una poderosa età dell’oro e che lei venga così fagocitata da questo mediatico sistema che non lascia scampo a nessuno.

− Ma vedi tu che cazzo di pensieri che ti passano per la testa. Ma va tutto bene?

− Certo.

− Ti masturbi regolarmente?

− Certo.

− Sarà che non vuole trovare moglie − azzardai verso Giovanni.

− Minchia che guai.

− Scusate se ho pensieri perversi e complessi − si giustificò.

Era lui quello carico. Non aveva raccontato nulla di quello che era successo in Sicilia e adesso era quasi un’altra persona. Aveva di certo trovato qualcuno e le cose non erano andate bene. Certo, tranquillo non lo era stato mai, ma questa volta era davvero una bomba a orologeria.

Caniggia ristabilì il pari dopo il vantaggio dell’Italia, non vi dico nemmeno grazie a chi. Si andò ai rigori e Donadoni e Serena sbagliarono li sbagliarono, consegnando la finale agli argentini. Eravamo maschere di cera, incazzati ma impotenti.

− Doveva farlo entrare prima, a Baggio − esordì di botta Vincenzo, − vi ricordate il gol contro la Cecoslovacchia, memorabile. I due gol annullati contro Uruguay ed Eire, nonché le prestazioni sempre di altissimi livelli. Lo dobbiamo soprattutto a lui se siamo arrivati dove siamo.

− Hai fatto i compiti a casa. Comunque sono d’accordo.

− Ma che d’accordo, che cazzo dite. − A parlare era stato un tifoso italiano, evidentemente scontento di Baggio e delle sue prestazioni ed evidentemente totalmente andato, visto che stava inveendo contro colui che, a parer mio e non solo, era ed è il giocatore più utile e forte di tutta la storia del calcio. − Poteva segnare su punizione e non l’ha fatto, questo me lo chiamate campione?

− Zitto, coglione di un burino.

− Lascialo stare, Vincè, non è il caso − disse Giovanni, tirandoselo via.

− Ecco, andatevene e portatevi dietro quel sopravvalutato pusillanime numero 15.

Beh, sapevamo che Vincenzo fosse un tipo irascibile, dalle esponenziali misantropiche tendenze, ma non eravamo di certo preparati a quello che successe. Lui ci guardò e disse: “mi ci voleva proprio”. Poi si avvicinò al tipo e gli diede un fortissimo calcio sullo stomaco, col piede a martello e non contento, appena a terra, si accanì continuando a calci. Noi ci fiondammo per dividerli, i suoi amici accorsero dal bar e la rissa alla cui ambiva Vincenzo e alla quale io e Giovanni mai avremmo voluto partecipare, prese vita in un fragore di grida, cazzotti e ospedali.

− Allora, mi spieghi che diavolo è successo? − Mi chiese Pucci, raggiungendomi nella sala d’aspetto dell’ospedale.

− Italia – Argentina, facevo meglio a scopare stasera.

− E gli altri?

− A Giovanni stanno ricucendo la fronte, a Vincenzo stanno ingessando il braccio e io me la sono cavata con un occhio nero, come puoi vedere.

− Ma sta rissa?

− Senti chiedi a quello sbroccato di Vincenzo.

− Me le perdo sempre le cazzate strane. Me le perdo sempre.

− Ma dove sei stato?

− Se te lo dicessi, piangeresti. Me lo terrò per me.

− Signor Rivero, mi scusi. − Era il commissario che aveva eseguito l’arresto di tutti quanti. − Ho parlato col vostro avvocato, il dott. Limoni e ritirerò il fermo a vostro carico.

− E gli altri, quelli che erano con noi?

− Non vi preoccupate, non sporgeranno denuncia.

− La ringrazio, comandante.

− Commissario. E non ringrazi me, ma il suo amico avvocato. E, comunque − si avvicinò, − avete tutti passato la cinquantina, direi che non sia più il caso di fare a botte nei locali.

Ci salutarono e se ne andarono. − Che figura di merda.

− Già, ha detto che non è più il caso di fare a botte − riprese Pucci, − lo hai sentito. Forse perché siamo troppo vecchi?

− No, Pucci, perché le abbiamo prese.

− Proprio perché siamo troppo vecchi.

− Dio, che figura di merda.

Le botte furono comunque giustificate. Nella finale per il terzo posto l’Italia affrontò l’Inghilterra e, grazie a un gol di Roberto Baggio e alla sua sconfinata umiltà, visto che fece tirare il rigore del definitivo 2 a 1 a Totò Schillaci, che poté così vincere la classifica di capocannoniere del mondiale, vincemmo la partita. L’onore del nostro beniamino era salvo e noi lo avevamo difeso col sangue, com’era giusto che fosse. Il mondiale andò alla Germania Ovest, quello fu il suo ultimo mondiale con quel nome, poi lo cambiò per i motivi che sapete.

Che dirvi, ce la godemmo proprio. Fu un’estate davvero gloriosa. La consapevolezza che non sarebbero più venuti mondiali così ci intristiva un po’, ma allo stesso tempo rinfrancava, almeno lo avevamo vissuto a pieno carico. Poi fu diverso, bello ugualmente, per certi versi, ma diverso. E sì, fatemelo dire, concedetemelo e se non lo fate davvero, vuol dire che o non sapete o non capite. Il calcio e i giocatori di un tempo erano di tutt’altra bellezza. E sapevo che quei tempi sarebbero cambiati e non sarebbero più tornati come prima, certo non immaginavo che fossero così radicali come adesso. Ma se ora la speranza di un ritorno è davvero finita, mi resta quel dannato ricordo di un passato che, concedetemi anche questo, non passa mai. Perché se c’è un contro senso in termini è proprio quello del passato.

E adesso questo mi fa pensare, come sempre accade, a una cosa che non c’entra nulla. Proprio nulla. Penso a lei e alla mia malinconia. Magari ve ne parlerò più avanti. Il passato è l’unica cosa che non passa mai.

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