21 Cap. 4 – “D come Domodossola”

(Giorno quattro)

Quando entrai nella sede distaccata del tribunale di Verbania, nella ridente e prolifica città di Domodossola, ebbi come la sensazione che sarebbe andato tutto bene. Anche il precedente mal di stomaco era passato. Quel benessere psicofisico veniva indubbiamente dalle parole pronunciate poco prima da Nanni Limoni, l’avvocato che seguiva le vicende della mia azienda.

− Statte tranquillo, Firmà – mo entramo e gliè famo er culo a sti piemontesi magna brodini. Senza offesa, eh.

− Ma che offesa, la bagna cauda non mi è mai piaciuta. – Mentii spudoratamente, ma solo per non farlo uscire dal binario della sua devastante sicurezza.

− E già che ce semo, gliè famo Er passo.

“Er passo” era quello che Nanni definiva “citarli per danni” una volta dopo aver vinto la causa. E fu proprio quello che fece. Quel giorno la piccola aula era stracolma e sembrava davvero che il signor Peppino Fulvi, che lavorava con noi da prima che io prendessi il posto di mio padre nell’azienda, dovesse vincere la causa. Il suo avvocato diede tutte le spiegazioni e motivazioni possibili affinché il suo cliente potesse essere risarcito, ma inutilmente. Sei mesi prima era caduto dall’impalcatura di un cantiere nel quale gli operai della mia azienda dovevano montare tetti e grondaie. Era un incarico breve, non più di due settimane di lavoro e il mio direttore capo dei lavori aveva deciso di risparmiare su caschi e cinture di sicurezza.

Per farla breve il volo che il signor Fulvi fece, gli causò una gravissima lussazione alla colonna vertebrale. Il referto parlava di grave diastasi di non ricordo quali vertebre e questo aveva compromesso anche parte del cervello, riducendolo su di una sedia a rotelle e limitandolo nell’uso della parola e fortunatamente solo a quella. Praticamente se avesse vinto lo avremmo dovuto rimborsare per non so quanti milioni di lire. Ma c’era una cosa che l’avvocato di Fulvi non sapeva, non sapeva chi fosse Nanni Limoni.

Nanni era figlio di una famiglia benestante della Roma bene, si era laureato come migliore del suo corso e aveva trovato lavoro nel più importante studio legale della Capitale. Ora, praticamente, era quello che mi guardava il culo e di norma ci riusciva sempre, ma questa fu la volta che più mi perplesse, non per il suo operato in quanto avvocato, ma per la spietatezza che mise in campo e mostrò in aula.

− Nessuno mette in dubbio che il signor Giuseppe Fulvi sia un lavoratore instancabile e i suoi tanti anni nell’azienda lo dimostrano. È sempre stato puntuale e ha saputo mantenere i suoi quattro figli. Complimenti. Ma non dimentichiamoci dei vizi del signor Fulvi. Moltissime volte è stato visto bere durante le pause pranzo e riprendere il lavoro in condizioni non idonee e questo possono testimoniarlo i suoi stessi colleghi, che incredibilmente, al contrario di lui, avevano caschi e imbracatura il giorno dell’incidente. Per non parlare della sua causa di separazione dalla moglie, per propria infedeltà a quanto pare, che lo ha visto particolarmente preso e di conseguenza molto disattento nell’ultimo anno, come possono confermare le numerose multe per divieto di sosta ed eccesso di velocità nel periodo in questione. Per finire aggiungerei che le spese mediche dell’assicurazione hanno coperto a sufficienza le sue cure e fino a prima di uscire dall’ospedale non c’erano lamentele da parte sua. Evidentemente avrà sentito il richiamo di un possibile modo per pagare le spese procedurali di un divorzio che si è cercato, provando ad estorcerli al mio cliente con questa insensata ed inconsistente denuncia. Quindi, in base alle prove, chiedo l’annullamento della sua richiesta.

Queste furono, a mia memoria e per sommi capi, le parole pronunziate da Nanni. In realtà nessuno dei lavoratori seguiva le norme di sicurezza, niente caschi né imbracature, ma non si poteva dimostrare il contrario e ogni membro della squadra era stato ben pronto a giurare di aver visto Peppino senza imbracatura e sostanzialmente brillo. Lo fecero sia perché temevano di perdere il lavoro, sia perché erano stati convinti da una busta a testa passata di nascosto per corromperli. Ora posso dirlo, tanto chi mi può rompere più.

Vedere il volto di Peppino silente e demoralizzato non fu piacevole, lo conoscevo da tantissimo tempo, ma meno ancora lo sarebbe stato rimborsarlo per chissà quanti soldi. Una volta usciti dall’aula, l’andatura fiera di Nanni era il palesamento della sua soddisfazione. Due settimane dopo fummo richiamati in aula per la sentenza. Vincemmo noi e a Peppino non andò neanche un soldo e quando il giudice chiese se comunque le parti fossero soddisfatte, “Er passo”. Nanni si alzò, si abbottonò la giacca e si schiarì la voce. – Signor Giudice, noi vorremmo citare il signor Giuseppe Fulvi per danni. Potrà leggere le motivazioni negli atti che possiamo immediatamente depositare.

Vincemmo anche quella, qualche altro mese dopo. In realtà inizialmente il giudice non voleva concederci il rimborso per danni, ma anche per lui fu sufficiente un po’ di pressione e qualche promessa. Finì che tutti guadagnammo qualcosa, tranne Peppino. La meravigliosa magia del compromesso. La squallida visione di un facile tornaconto. La meschinità dell’animo umano di fronte alle infinite possibilità che un briciolo di potere ti concede. Ogni cosa si incasellava perfettamente e con poche mosse, due parole ben messe e la solida e sicura promessa di un malloppo, tutto aveva trovato il suo giusto posto. Poco importava che Peppino, amico di mio padre, diligente operaio secolare dell’azienda, con a carico quattro figli e un divorzio, costretto su di una sedia a rotelle, con l’handicap della parola, avrebbe dovuto rimborsare a noi i danni. Ci avrebbe pensato l’assicurazione e parte della pensione che gli sarebbe toccata, ma era comunque un durissimo colpo. Vivere, per lui, non sarebbe stato altro che sopravvivere. Ma io in quegli anni avevo un solo obiettivo nella vita e nulla poteva distogliermi da esso.

Ci rimasi male quando seppi che Peppino aveva tentato il suicidio con un coltello da cucina. Se ci fosse riuscito avrebbe risolto una marea di problemi in un colpo solo. Povero Peppino, neanche in questo aveva avuto fortuna. A causa sua ebbi una violentissima discussione con mio padre. Forse fu proprio quello il momento del declino del nostro rapporto. No, che dico, cominciò molto prima, ma indubbiamente quell’episodio diede un fortissimo scossone al nostro legame. Il resto è davvero tutto molto triste. Ma non mancherà il tempo per tornare su questo argomento, o meglio, so che ancora un po’ di tempo c’è. Quindi torniamo a noi.

Coi soldi che riuscimmo a fare dalla citazione fatta allo sventurato Peppino Fulvi, saldata la cospicua parcella di Nanni, ecco il sogno. Mi comprai una barca a vela, precisamente un Caicco turco di ventiquattro metri. Una goletta straordinaria, con sedici posti letto, sette cabine e altrettanti bagni. Era praticamente una casa sull’acqua e mi ci trasferii per due estati di fila. Con gli amici girammo l’Italia e arrivammo diverse volte anche in Spagna e nelle coste francesi. Sia chiaro, non ero uno sfaticato, ma a quel tempo riuscivo a conciliare lavoro e svago. Me lo godevo il mio tempo, come meglio potevo e riuscire a farlo bene è l’unica alternativa possibile all’oblio disperato che è la vita di ognuno di noi.

Ricordo ancora quello che successe, credo in Andalusia o forse sarà stato a Minorca. Era la fine di agosto del 1989 e andammo in cinque, tra cui Nanni e Pucci. Nanni era il classico tipo che al solo guardarlo avresti mantenuto tutto il tuo self control e saresti rimasto immobile e serioso a parlare con lui di politica e finanza, ma che al terzo cocktail c’era il rischio di trovarlo con la cravatta legata sulla testa a tirare coca sulla pancia di qualche spogliarellista su di un biliardo. E in effetti fu così che lo trovammo io e Pucci, con la sola differenza che la ragazza non era una spogliarellista, ma la cameriera di uno dei locali della costa, il biliardo era il letto della sua cabina nella mia goletta e al posto della cravatta sulla testa aveva le sue mutandine. La coca era coca, rimediata dalla cameriera la sera stessa.

Pucci, dopo un attimo di perplessità, come da suo solito scoppiò in una fragorosa risata, mentre io per un attimo mi stupii e poi mi preoccupai, ma durò pochissimo e richiusi la porta della cabina, lasciandoli soli. Era davvero tardi e decidemmo di concludere la serata chiacchierando sulla prua della barca a bere vino e fumare erba.

− Porca puttana, vedi quanto è strana la vita – diceva Pucci, con lo sguardo perso sulla costa poco lontana, − Peppino Di Capri ha compiuto cinquant’anni e ne dimostra trenta. Qual è il suo segreto? È felice. Da sempre. Che schifo.

− Che cosa c’è di male nell’essere felici? – Lui mi guardò e non disse nulla. – Non mi pare tanto male come cosa.

− Tu sei felice?

Ci pensai un attimo. – No – risposi, − non lo sono.

− E allora di cosa cazzo stiamo parlando. Vuoi davvero sapere cosa è la felicità?

− Illuminami.

− La felicità è…

S’interruppe di colpo e ci voltammo contemporaneamente verso il fortissimo botto alle nostre spalle, qualcosa che si schiantava nell’acqua. Corsi sul posto e c’era Nanni che guardava fuori bordo. Il tonfo non era stato altro che la ragazza del bar. Soffriva di vertigini, ma Nanni l’aveva convinta ugualmente a salire sull’albero della barca e tuffarsi. Per farlo le aveva promesso la bellezza di dieci milioni di lire e quella non ci aveva pensato su un attimo. Col mix che aveva in corpo di cocaina e chissà cos’altro e la promessa di tutti quei soldi, le vertigini le aveva belle che scordate. Quando scomparve nel mare nero, pensammo il peggio. Qualche secondo dopo riaffiorò, la tirammo a bordo, vomitò e svenne. Poi Nanni la porto in cabina di peso.

Quando la mattina dopo si riprese e con i suoi soldi ci salutò, chiedemmo immediatamente spiegazioni a Nanni e lui, come se nulla fosse, dopo aver recuperato la sua flemma professionale, con la stessa intensità vocale che utilizzava in aula ci rispose “sinceramente, credevo morisse nel tentativo”.

− Che vuol dire “morisse nel tentativo”?

− Quello che ho detto, anche se proprio un attimo prima pensavo non lo facesse. Ce la saremmo comunque cavata, di che vi preoccupate.

La cosa che dava davvero da pensare, alla fine di tutto quello, non era tanto che avessimo corso un gran bel rischio o che il poco rispetto per la vita che Nanni avesse nei confronti di quella ragazza avrebbe potuto metterci in guai seri, ma che lo avessimo fatto a cinquant’anni già suonati, più di quelli che potesse avere Peppino Di Capri. E sapevamo benissimo che al posto di Nanni ci sarebbe potuto essere uno qualsiasi di noi. Era assolutamente la cosa più probabile. Ma è la stranezza che ci rende ciò che siamo e sono le cose strane che facciamo a collocarci nella storia. Certo, una stronzata del genere l’avremmo potuta evitare, ma a pensarci adesso credo che non sia del tutto così semplice. Anzi, forse non è proprio così. Non si possono evitare determinate cose se fanno parte di te, qualunque sia la tua età. Forse era anche la noia che ci portavamo addosso o il fatto che ci sentivamo come quella bellissima città piemontese. Proprio quella dove il signor Fulvi aveva trovato l’inizio del suo declino e nella quale, invece, io avevo prolificato. Tutti la conoscevano solo per l’iniziale del suo nome, eppure nessuno sapeva quanto valesse. Ci sentivamo tutti un po’ Domodossola, eravamo tutti un po’ Domodossola e forse cercavamo di rifarci sulla vita e sui suoi eventi. Avevamo tutto e non lo sapevamo. Eravamo belli e tutti vedevano solo la cosa più semplice di noi. L’identificazione di una lettera in un quiz. Di conseguenza non potevamo far altro che esserne consapevoli e fottercene alla grande di tutto e di tutti, continuando proprio come stavamo facendo. E se quindi, alla fine della fiera, Peppino Di Capri aveva le sue belle canzoni, noi avevamo bariste strafatte di coca da lanciare dalle barche. Lascio a voi la scelta.

Comunque comincia a fare freddo e stamattina ha pure cominciato a piovere. Ho sempre amato la pioggia e da piccolo correvo sempre fuori. Farlo ora sarebbe ovviamente impossibile, ma fino a qualche tempo fa passeggiavo molto. La pioggia lava via ogni cosa, diceva mio nonno, estirpa i mali della terra. Purifica. Rinfresca. Eppure, allo stesso tempo, è così banale.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...