21 Cap. 7 – “G come Genitore”

(Giorno sette)

Oggi è l’11 dicembre del 2035 e sono passati sette giorni da quando ho iniziato a registrare. Lo ripeto per non perdere il filo, anche se sono in forma ho sempre 99 fottutissimi anni. Allora, se avete già avuto a che fare con un bambino dell’età di cinque anni, sapete di cosa parlo. Se non avete mai avuto occasione di starci a contatto per più di ventiquattro ore filate, allora non sarà facile capire. Ancor meno lo sarà con mio figlio, perché vedete, Bernardo era intelligente e vispo quanto basta per un bambino della sua età, ma aveva una cosa che cozzava col mio modo di vivere ed essere e che prese piede e si radicò in lui dopo la separazione da Eleonora. Lui stava zitto, sempre. Smise di parlare. Secondo me lo fece per ripicca, perché ripeto era molto più intelligente di quanto si credesse, ma secondo Giovanni, il dottor Pelitti, ricordate, il mio amico psicologo, quello gay che vi ho detto, del matrimonio, era tutta una questione di chiusura psicologica istintiva, un senso di difesa che si esternava nel rifiuto alla comunicazione anche più basilare.

Ora non dico che un bimbo che sta zitto non sia una sorta di manna dal cielo, specie per un tipo come me che i bambini non li sopportava proprio, ma era mio figlio e per lui facevo tutte le eccezioni del mondo. E le facevo specie se sua madre era lontana e a vedermela con il cibo, la scuola materna, lo svago, le cene, i pranzi, le merende pomeridiane, le dormite pomeridiane, gli amichetti pomeridiani, due sedute alla settimana di psicologia e tutto il resto, dovevo essere io e solo io.

Eleonora non ci mise molto a chiedere il divorzio, sfruttando la sua entrata in vigore solo un anno prima e nonostante Bernardo fosse stato affidato a lei, io potevo vederlo e tenerlo tutto il tempo che desideravo.

− Sai, non credo che questo stare molto con te e molto con lei faccia bene al bambino. Dovrebbe tenerlo lei e vederlo tu di tanto in tanto, come per legge. Che ci stanno a legiferare quelli allora, ci sarà un motivo. Perché fate di testa vostra?

− Giovanni, non avrei mai creduto di poterlo dire, ma la penso esattamente come te.

− Oppure fare il contrario − aggiunse − tenerlo tu e vederlo lei.

− Già va meno meglio. I bambini, Giovà, devono stare con le mamme.

− Vero, ma dovete trovarla una soluzione allora.

− Sinceramente ho provato a chiamarla, a parlarle, ma non ne vuole sapere. È decisa a fare così e basta. Gliel’ho detto che lei ha più tempo di me, ma già era partita con frasi del tipo “allora me lo prendo io e ci trasferiamo” e questo vuol dire andare in Toscana e spostarsi da Torino e sinceramente col cazzo che le lascio portare mio figlio laggiù. Con quell’accento che hanno lì.

− Che situazione.

Era effettivamente una situazione del cavolo, ma era l’unica possibile e l’affrontammo, o meglio l’affrontai, con tutto me stesso. Adesso vivevo solo nella casa in collina, quella dove mi trovo adesso per intenderci. Lei restò nell’appartamento di via Giovanni Battista Viotti, ultimo piano, 350 mq, vista panoramica, giardino in terrazza e forse è meglio che mi fermo qui. Non me la passavo mica male in collina, per carità, ma scendere in città era ogni giorno una tortura.

Fu un anno difficile il primo, anche perché non riuscivo a trovare spazio per la mia vita privata e sessuale. Quella sentimentale non la cercavo nemmeno, visto che lei mi aveva lasciato proprio quando pensavo di continuare la nostra relazione dando una svolta, un colpo di coda da manuale. Quello lo aveva dato lei invece, tanto che si frequentava con un altro uomo a quanto avevo capito, un certo Beniamino Vizio, un ortopedico. Giovanni lo conosceva, avevano fatto l’università insieme e poi preso indirizzi diversi.

− È simpatico, fa ridere. È un tipo che alle feste non sa stare fermo, immagina che una volta, durante una festa in un hotel, si è messo a ballare sui tavolini.

− Tra tutti gli altri dottori? − chiesi.

− Sì, proprio in mezzo a tutti. Ma è un professionista, capiamoci. Uno che il suo lavoro lo sa fare e pure bene.

− Tu hai mai ballato sopra un tavolino? − mi chiese Giuseppe Calonì, il mio amico nel mondo del cinema che mi aveva accompagnato ad una seduta di Bernardo.

− Mai.

− Forse è per questo che ti ha lasciato.

− Beppe, non ti rispondo nemmeno.

− Comunque questo Vizio non è male. All’università a volte scompariva dalla circolazione, quando si metteva con qualcuna e poi, d’improvviso, riappariva come dal nulla.

− Giovanni, questo non mi aiuta.

− E che ti aiuterebbe.

− Una bella cena − intervenne Giuseppe. − Domani sera veniamo da te e si fa una bella cena. Chiamo anche Ermanno e Clementino.

− Ma che, Clementino per ora lavora a Roma, non verrà mai.

− Vorrà dire che allora chiamerò Vincenzo.

− Vincenzo chi? − chiese Giovanni.

− Ma come chi, Vincenzino, il mio amico professore di filosofia.

− Sì − intervenne Giuseppe, − quello genovese, pescatore, sempre un po’ disgustato dal genere umano.

− Ah, ho capito, Peppino Guerra. Ma quello non viene mai. Prova, ma mi sa che ci perdi i soldi della chiamata.

− Beh, io ci provo, in caso siamo solo noi. Gli dico che mangiamo pesce, così magari si convince.

− Ok, ma niente cozze che già st’estate c’è tremato fin troppo il culo con sta storia del colera.

Era fatta, una serata ci stava. Quell’anno era stato davvero pesante, paura del colera a parte. Bernardo aveva fatto sei anni e cominciato la prima elementare e io mi sentivo in dovere di dare davvero il meglio di me. Cercavo anche di nascondergli le poche avventure che riuscivo a portarmi a casa e quando vedeva qualcuna che restava la notte, inventavo sempre la scusa della signora delle pulizie. Alla terza donna diversa cominciò a porsi il quesito che lo stessi prendendo in giro, o in alternativa che fossi il papà più pulito del mondo. Non lo seppi mai.

Quando tornai a casa la sera dopo trovai Giuseppe Calonì davanti casa mia, con quattro sacchetti della spesa e tutta l’aria di quello che avrebbe cucinato per tutti. − Ho chiamato lo studio, il montaggio lo dirigono loro. Sono libero di fare tardissimo.

Poco dopo arrivò Giovanni e subito dopo Ermanno. Neanche a dirsi, di Vincenzo non si seppe più nulla, nonostante avesse detto “certo, vi faccio sapere dopo pranzo”.

− E alla fine siamo solo in quattro. Peccato per Vincenzo e peccato per Clementino, ci avrebbe fatto pisciare addosso.

− Allora − esordì Giovanni, mentre apriva il vino, − cosa ci fanno un banchiere, uno psicologo e un cineasta a casa di un imprenditore?

− Oddio, non so proprio − disse Ermanno.

− Ermà, è na battuta, spara la prima cosa che ti viene.

− Ma a me non viene mai niente di istintivo.

− Sapete che c’è − disse Giuseppe, − chiamiamo Clementino, anche se lavora lui lo saprà di certo. Tu hai il numero.

Clementino rispose dal suo camerino, a breve sarebbe andato in onda, ma io avevo il suo numero personale e con me non c’erano mai problemi.

− Una domanda al volo e non ti rompo più.

− Ecco, già cominci con le cazzate e le promesse e neanche saluti.

− Allora, cosa ci fanno un banchiere, uno psicologo e un cineasta a casa di un imprenditore?

− Il banchiere è lì per concedere il prestito, dato le condizioni del proprietario di casa, anche se vorrebbe essere da tutt’altra parte, lo psicologo per scavare nella personalità dell’imprenditore e curare la sua futura depressione post bancarotta, ovviamente a causa del banchiere e il cineasta inizia a scrivere appunti per la trama di un film, che di certo sarà a tema horror, visto gli individui presenti. Per la cronaca, si salva solo il bambino, che sta zitto e i mostri non lo mangiano.

− Niente di meglio da offrire?

− Niente in particolare, ma un buon imprenditore ha sempre un buon whisky da offrire, quindi falli ubriacare. Mi mancate, cazzoni, scappo.

Questa cazzata, che in fondo in fondo non faceva ridere, diede inizio alla serata. Cucinarono Giuseppe e Giovanni, mentre io ed Ermanno apparecchiammo e mio figlio gironzolava per casa. In un tombale silenzio, come al solito. Non pensai a nulla e fu straordinario. L’ottima cena, accompagnata da almeno sei bottiglie di vino ci vide ridere come non mai. Era tutto perfetto e sentii tornare quel briciolo di buon umore che mette tutto a posto. Perché la maggior parte delle volte è proprio il buon umore a ristabilire il giusto equilibrio e dare la spinta che serviva. Poco dopo ci ritrovammo in salotto, riscaldati dal fuoco e dal whisky.

− Certo che la tua casa è proprio bella − disse Giuseppe, quando tornai dopo aver messo a letto Bernardo.

− Grazie, è l’unica cosa che ho curato senza l’aiuto di Eleonora.

− È proprio bella. Mi immagino come dev’essere vivere qui, con le atmosfere invernali, la brina, le nuvole basse e la nebbia, insomma tutta la vasta gamma delle bellezze che la natura ti offre in un luogo come questo. Sai, i camini che fumano nella notte. Il calore. L’essenza del bello. La naturalezza filosofica dell’estetica. Ci vorrebbe una fotografia. La renderebbe unica.

Ci guardammo tutti, nell’attesa che qualcuno aggiungesse qualcosa a tema con la serata fatta di vino e pesce e svago. Poi, dopo un sorso di whisky, Ermanno non resistette più. − Ma che, la fotografia non esiste più. Come il bello ha perso di valore. Tutto quello che è fotografabile è già stato fotografato.

­− Ermanno, ma questa è una banalità − intervenni − è come dire che tutte le note sono già state usate. La stessa cosa.

− Aspetta Firmato, decontestualizza.

− Ma tu a quest’ora riesci a dire “decontestualizza”? Con che coraggio?

− Le note non sono estetica. Almeno per come la intendo io, l’estetica.

− E come la intendi, sentiamo?

− L’estetica è politica.

− Oh, Gesù Cristo… − esclamai, con la mano davanti agli occhi.

− Cos’è l’estetica?

− Politica, mio caro Bob Fosse − ribadì Ermanno. − Semplice. Vi spiego in due parole. Se ti affidi a un puro gusto estetico, non te ne esci più. Non basta a se stesso. È effimero. Se invece lo politicizzi, se lo rendi politico, allora il senso estetico acquista un nuovo significato.

− E come lo politicizzi? − chiese Giuseppe.

− E io che cazzo ne so, sono ubriaco. Io ti dico quello che dovresti fare, non come farlo.

− Guarda − gli dissi − lo hai convinto.

− Non li fai i soldi col bello.

− Su questo ha ragione − dissi, − io ora ho un figlio da crescere, mia moglie che non mi aiuta e un divorzio che mi succhierà via l’anima. Bisogna necessariamente monetizzare. Anche il bello. Il più possibile.

− Ma di che parlate? − chiese Giovanni, che era andato al bagno.

− Stiamo parlando di monetizzare l’estetica.

− C’è un mio amico che fa il fotografo di tramonti.

− Giovanni, hai detto “fotografo di tramonti”? − chiese Ermanno.

− Esattamente. E ci campa.

− Un conto è campare, un altro è vivere.

− Ehi, Ermanno, quello ha inventato un mestiere.

− Scusa, ma è questa l’invenzione? − domandai, − la genialata? Quello che ti porterà da vivere? La foto al tramonto.

− Ma certo che sì. Sai che meraviglia un tramonto sul mare.

− Giova, l’unica funzione del tramonto è che dopo un’ora si mangia.

Dopo questo Ermanno si piegò in due dalle risate, vomitò per il forte sforzo e questo sancì la fine della serata. Quella cena me la ricorderò per sempre e per sempre mi ricorderò di come una semplice chiacchierata abbia avuto la devastante forza di cancellare un anno disgraziato come quello e farmi rimettere in carreggiata. Troppo spesso sottovalutiamo la potenza dello svago, lo diamo per scontato, ma per fortuna capita che qualcuno riesce a farci tornare in mente che i problemi possono anche essere risolti o perlomeno arginati, a volte.

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