21 Cap. 14 – “P come Pandoro”

Nota dell’autore: Questo capitolo segna la ripresa della stesura del racconto dopo due anni e mezzo di inattività dalla scrittura.

(Giorno quattordici)

Sto registrando sul lato B. Avevo cominciato a parlare e si è interrotto dopo neanche dieci secondi. In verità pensavo finisse prima. Comunque, svegliarmi con un raggio di sole che passa dalle tavole della finestra e mi colpisce il viso, a dicembre, non mi capitava da un sacco di tempo. E poi, dopo i ricordi di ieri, che mi hanno riaffiorato il passato con Eleonora, se vi raccontassi che sogni ho fatto stanotte, mi servirebbe anche la cassetta di Mino Reitano. Che poi, che razza di nome è Mino. Sessualmente inappetibile. Comunque, grande artista, non apprezzato per quanto avrebbe meritato. Lo conobbi in un ristorante a Reggio, nel duemilauno, anno in cui pubblicava solo raccolte. L’anno prima aveva partecipato ad un film comico, L’ultimo mundial, ma è meglio lasciar perdere sta storia, che poi mi torna la tristezza che il sogno mi ha fatto andare via. Lui azzannava delle ali di pollo e io ero con Vincenzo, che si ostinava a volermi far mandare giù dei viscidi e lunghi tentacoli di polpo.

– Firmà, non è la cosa più buona che tu abbia mai mangiato?

– Decisamente, no.

– Come, no – chiese, come se gli avessi offeso la madre, – il polpo. Ma te ne sei reso conto che questo è un polpo?

– Sì, lo vedo, non sono cieco.

– Non devi guardarlo, devi mangiarlo. Questo è polpo, capisci, polpo.

– Non è che se ripeti “polpo” altre dieci volte, il suo sapore e la sua consistenza cambiano. Per me è una merda.

– Ma come – disse, guardandomi col l’aria di un bambino a cui avevano appena tagliato un pallone, – …il polpo.

– Fissato, maledetto che sei, d’accordo, lo mangio, poi però se te lo vomito in macchina, cazzi tuoi.

– Bravo, bravo – si compiacque, tornando fiero e baldanzoso, ingurgitando quella roba viscida e che a mio parere puzzava pure, – e mangiati sto cazzo di polpo.

– Avanti.

– Senti, ma quello laggiù non è Mino Reitano?

– Sì.

– Che dici, se gli mando un piatto di sto polpo delizioso, me lo fa un autografo?

– Visto che a quanto riesco a vedere, sta mangiando del pollo, credo di no.

– Avà, Firmà, questo è polpo.

Quando lo guardai, fulminandolo con gli occhi, non resistette più e scoppiò a ridere talmente forte che fece girare tutto il locale e per poco, dopo uno slancio immotivato all’indietro, non cadde quasi dalla sedia. Era fatto così, si fissava seriamente su di una cosa e poi rompeva finché non rimaneva soddisfatto. La cosa positiva fu che, alla fine della cena, quando stavamo per chiedere il dessert, fu lo stesso Reitano ad avvicinarsi.

– Buonasera, signori. Ci stava per rimettere la testa, poco fa.

– Buonasera signor Reitano, si ha ragione, ma era un momento estremamente divertente.

– Chiamatemi Mino, vi prego – disse, sedendosi. Quando notò la nostra aria sorpresa, riprese – non vi offendete se mi siedo un attimo con voi, vero?

– Ma, assolutamente. Io sono Vincenzo. Vuole del polpo?

– No, ma grazie.

– Guardi che è buono.

– Immagino, ma sto bene così.

– Sicuro, sicuro…

– Ah, Vincè – intervenni, – e se il signor Reitano non lo vuole, non insistere. E comunque, io mi chiamo Firmato, è un piacere conoscerla.

– Mino – precisò lui, – vi prego, chiamatemi Mino. Piacere.

– D’accordo, Mino. Ma dicci, possiamo fare qualcosa per te?

– Certamente, vorrei farvi sentire una canzone.

– Qui, ora?

– Certo, qui e ora. Vi sembrerà strano, lo capisco, è una cosa che facevo spesso quando facevo uscire i miei singoli, tempo fa, per saggiare le reazioni, diciamo. Ma stavolta ho un po’ più di timore, perché si parla di una canzone che dovrebbe… – si interruppe e si voltò circospetto, assicurandosi che nessuno lo sentisse, – …una canzone che dovrebbe andare a Sanremo.

– Minchia, Sanremo – esclamò Vincenzo, sottovoce, – ma è una vita che non ci vai.

– Dieci anni.

– Un mare di tempo – dissi io, – è stato con “Vorrei” se non sbaglio, giusto?

– Ma che dici – precisò Vincenzo, anticipando Reitano, – quella è stata nel novanta. Con l’orchestra sulla montagna, una pessima scenografia. La montagna in un posto di mare.

– Forse era una scogliera.

– Era una merdosa montagna.

– Comunque, se non sbaglio, – precisai, – è stato quando hanno vinto i Pooh.

– E chi li batteva quelli – disse Mino, – manco potevo giocarmela.

– E ci credo, Mino, dove minchia dovevi andare.

– Vincè – intervenni, – ma che modi sono?

–  Ma sì – continuò imperterrito lui, – quell’anno sei arrivato diciannovesimo, dietro pure a Lena Biolcati.

– Chi?

– Lena Biolcati, che manco sua mamma sa chi sia.

– E lì ti sbagli – prese voce Mino, – Lena era una bomba e poi dietro aveva i Pooh, che l’avevano notata nell’85.

– Sempre i Pooh, eh… allora non avevi proprio speranze.

– Minchia Vincè, ma che cazzo c’era ni sto polpo.

– No, va bene, va bene, ha ragione. Vi ho scelto per la vostra schiettezza. Mi sembrate genuini.

– Mino – precisai, – non siamo genuini, a sessantasei anni siamo solo stanchi.

– Tu hai sessantasei anni, io ne ho molti di meno e anche Mino… aspè, Mino, ma quanti anni hai?

– Ne faccio cinquantasette a dicembre.

– No, vabbè, sei più piccolo di me. Ma com’è possibile, non sembra per niente.

– Oh, Cristo… – dissi io, ormai sconfortato.

– Guarda, io mi sento da Dio e poi meglio stanchi che morti. E comunque, per dover di cronaca, l’ultima apparizione è stata nel novantadue, con “Ma ti sei chiesto mai”.

– Questa la ricordo – dissi, – per me era un pezzone.

Vincenzo mi guardò con l’espressione di chi aveva sgamato la stronzata del secolo, incurante che davanti avesse Reitano. A nulla valse la mia dissimulazione, perché la sua mano alzata verso il mio volto era troppo emblematica e non curante aggiunse dell’altro. – Ma se non è arrivata manco in finale.

– E vabbè, ma che sei Coccinella?

– Sono un fan.

– E menomale, vedi se ti stava sul cazzo che gli dicevi.

– Gli facevo mangiare il polpo – e scoppiò nuovamente a ridere, nel medesimo modo sguaiato di prima.

Lo guardai con aria di sdegno e sbigottimento, senza realmente comprendere che diavolo gli passasse per la testa, quando finalmente fummo interrotti. – Signori – disse Reitano, che sembrava inspiegabilmente divertito e rilassato, – la volete ascoltare sta canzone o no?

– Ma, certo.

– Bene, vado a prendere la chitarra in macchina. – Si alzò e uscì dal locale.

– Oh, Vincè, ma che hai. Pensavo ti stesse simpatico, volevi anche l’autografo.

– Non è che mi sta simpatico, io lo adoro.

– Ma se gliene hai dette di tutti i colori.

– Quella è schiettezza. Non lo hai sentito, genuinità.

– Cafoneria.

– Genuinità, ma tu che capisci, finisciti il polpo.

– Ancora con sta merda di polpo, ti giuro che…

– Eccomi qua – disse il cantautore, sedendosi di nuovo al suo posto, girandosi nuovamente e notando che ormai erano rimasti solo altri tre tavoli con poche persone, – si può fare. Pronti?

– Sì.

– Avrò solo la mia chitarra e questa è…. diciamo, una bozza, se la prenderanno al Festival ci sarà l’orchestra, quindi capite il contesto.

– Certo, Mino, vai tranquillo.

– Bene e mi raccomando, sinceri – chiarì, dopo un sorso di vino.

– Garantito – rispose Vincenzo e si mise in ascolto con la massima attenzione. Anche io mi protesi all’ascolto, molto incuriosito, ripensando al pezzo “Italia”, che aveva spopolato nell’88, finendo sesto a Sanremo. Vincenzo tradiva comunque un po’ di scetticismo, cosa che comunque non avrebbe mai compromesso il suo giudizio.

Mino si preparò, ricontrollò la chitarra, diede l’ennesima occhiata in giro e poi cominciò con un arpeggio leggerissimo. – “Io non so nemmeno tante cose, dico sì, non so nemmeno a chi. E non lo so cos’è sensato e se c’è un filo, che non so perché mi lega a te. Non lo so cos’è un gesto silenzioso, sono qui che canto la canzone. E so solo che sorrido veramente, come se tu fossi qui con me”. – A questo punto, nel cambio di espressione di Vincenzo, cambiò anche il ritmo della canzone, salì di tono e all’arpeggio si sostituì una leggera plettrata. – “Sembra che sia tutto facile, mentre qui tutto è fragile. Sento che gli amori spezzano il cuore in due e devo dirlo io”. – Avevamo cambiato entrambi espressione e ci eravamo aggiustati nella sedia, come se cercassimo una sistemazione più adatta, meno rigida, più sicura. Tutto questo, quando Mino incalzò ancora di più nel ritornello, alzando, oltre l’incedere della voce, che sapeva tremare proprio nei punti più sensibili, ogni nostra aspettativa. “E allora canto la mia canzone, so quanto è vera, so dov’è il cuore. È il sentimento che non mente, sei tu che poi te la ricanti, non menti, sei tu”.

Adesso il ritmo era tornato più blando e Mino staccava la canzone con un veloce intermezzo, lanciando un’occhiata, questa volta, alle nostre espressioni e stranendosi al punto da sbagliare un accordo, anche se noi non ce ne accorgemmo. Eravamo come assorti, trasportati da qualcosa di strano, totalmente rapiti. E lui, come il più feroce dei predatori, tornò a tormentare le nostre carcasse già divorate per metà. – “Non lo so, mi senti o non mi senti? Sono io che parlo di tormenti e di allegria e poi di luna e della fine o com’è la vita insieme a te”. – A questo punto, continuò, ripetendo alcune parti, ma noi non lo ascoltavamo più. Eravamo in una dimensione nostra, ognuno assorto nei propri pensieri, tormentati da cose che non ci aspettavamo di rivedere. Mi voltai verso Vincenzo, come a voler trovare un appoggio per tirarmi fuori da quella situazione, ma lui era completamente perso, aveva gli occhi lucidi e di certo quella doveva essere l’espressione che aveva Odisseo, quando vide la sua nave andare in pezzi e tutto il suo equipaggio essere inghiottito dal mare, tra i flutti vorticosi della disperazione.

– “È il sentimento che non mente, sei tu che poi….” – infieriva proprio alla fine Mino, che con quel suo timbro pieno e vibrante rallentava inesorabile, come prima della stoccata finale, – “te la ricanti, non menti…” –  e cambiando accordo finale, che invece di chiudere una canzone romantica e apparentemente triste, apriva ad un mare di possibilità che noi, figli smarriti di un’età che voleva essere rincorsa, non riuscivamo a fare nostre, ci infilzava, – “…canti tu”.

Quando concluse con l’ultima plettrata, tornò a guardarci, ma nessuno di noi due parlò. Le persone rimaste, non più di mezza dozzina, esclusi i tre camerieri vicino la cucina e noi, si alzarono e cominciarono ad applaudire. Poco prima che quello scroscio convinto di mani si arrestasse, Vincenzo si alzò, con in volto l’espressione più seria che gli avessi mai visto e io rivissi un momento neanche troppo lontano, simile in moltissime cose. – Polpo del cazzo – gridò, scaraventando lontano il piatto con i pochi pezzi rimasti, che quasi non fini giù dal tavolo e si allontanò verso l’uscita.

– Cos’è, non gli è piaciuta – chiese un po’ smarrito Mino Reitano, che sembrava non essersi accorto del clamore positivo della sala.

– No, Mino, – risposi, guardando Vincenzo che si allontanava dalla sala, – è il contrario. Gli è piaciuta fin troppo.

Lui rimase comunque scioccato, fin quando usciti tutti dalla sala, Vinvenzo non si avvicinò a noi, in procinto di salutarci. – Mino, scusa per prima, tu non c’entri nulla è tutta colpa di Pia. Da una con un nome così non ti aspetti mica certe cose e invece…

– Non so di cosa tu stia parlando, però lo prendo come un complimento, anche se ho sbagliato un paio di accordi.

– Lo è. Questo pezzo è davvero spettacolare ed è stato un onore ascoltare in anteprima il brano che vincerà la cinquantaduesima edizione del festival.

Vidi distintamente Mino Reitano infilarsi la mano sinistra in tasca e con l’altra salutarci amabilmente, per poi salire in macchina e allontanarsi, tronfio dei nostri più sinceri complimenti e pieno di nuova e ritrovata speranza. Gli scongiuri di Reitano non servirono a nulla. “La mia canzone”, quel meraviglioso pezzo che ci aveva sconvolto la giornata, si piazzò diciottesimo, subito prima delle Lollipop. Le Lollipop…

Comunque, tutto questo racconto su Mino era per farvi capire che molto spesso le situazioni più incredibili, che ci portiamo dentro e che immaginiamo non possano più ripresentarsi, riaffiorano senza preavviso e ci cambiano la vita. Pia, aveva devastato la vita di Vincenzo con quattro parole e a saperlo, oltre loro due, anche se nutro ancora adesso forti dubbi che lei sapesse quanto l’anima di Vincenzo fosse stata fatta a pezzi, eravamo io e ed Ermanno e solo perché una volta, da ubriaco, Vincenzo si lanciò in una dissertazione sull’amore, molto simile alla storia del polpo, come filo conduttore, nella quale infilò la sua Pia e le loro peripezie, iniziate stranamente nella meravigliosa Baia delle Sirene, proprio nella ridente cittadina di Palma di Montechiaro, paese nel quale io e lui ci stavamo recando in quel momento per un funerale.

Ma non voglio parlarvi di questo, ma di quella strana relazione. Per raccontarvi bene ciò che successe a Pia e Vincenzo, però, devo tornare ad un altro anno, quello del millenovecentonovantotto, proprio l’anno dopo il matrimonio di mio figlio Bernardo e Alba. Ve ne ho parlato proprio ieri, quando il grande chef Geppo Cannavacciuolo ci invitò al suo ristorante estivo. Fu alla fine di agosto che Vincenzo, consolidò le radici del suo rapporto con Pia, per poi estirparle, o vederle estirpate, dipende dai punti di vista, nel Natale seguente, ma andiamo per ordine, altrimenti vi perdete.

Era il 30 di agosto ed eravamo in costume in riva al mare. Ci avrebbero raggiunto tutti proprio lì in spiaggia, per iniziare una settimana calda, come la definiva Vincenzo. – Allora, programma del pomeriggio, voi state qui a prendervi il sole, la salsedine e l’aria della Sicilia, io vado a pescarvi qualcosa, così mangiamo pesce fresco a cena, che ne dite?

– Vai pure, noi stiamo bene.

– Alla grande – confermò Pucci, mentre si accendeva una sigaretta.

– Ma proprio qui devi fumare – protestò Giovanni, che non toglieva lo sguardo da suo figlio Giorgio, intento a non volersi minimamente allontanare dalla riva, nonostante avesse già compiuto quindici anni, – non la senti com’è pura l’aria, non senti la sua freschezza, la sua purezza, non la senti che ti entra dentro.

– Giovanni, l’unica cosa che sento è la tua voce.

– Il suono della verità.

– Giovanni, scusa, – intervenni, – ma perché Giorgetto non si muove dal bagnasciuga?

– Ha paura degli squali.

– Degli squali?

– Sì, degli squali.

– Guarda, non ti dico nulla va, che oggi è troppo una bella giornata. Ma Priscilla?

– Non lo so, dove sta – chiese lui, con aria di finta preoccupazione.

– Sta là – ci informò Pucci, indicando lei che in mezzo all’acqua, poggiata con una mano su di una barca, parlava con un ragazzo sulla trentina.

– E che fa?

– Giovà, ma lo chiedi perché non ci vedi o perché vorresti sapere che si dicono?

Lui rimase zitto e il suo silenzio fu la più rumorosa delle risposte. Finché non cambiai discorso. – Ma che ore sono, non dovrebbero arrivare gli altri?

– Sono le cinque, calcola che arrivavano dopo pranzo. Posavano le cose a La Luna e venivano subito qui.

– Cos’è La Luna – chiese Pucci.

– E un bar, un locale sul lungomare.

– E che dormono sul bancone dei gelati?

– Hanno delle stanze ai piani superiori. Proprio dove dormiremo noi.

– Ora è chiaro.

– Comunque – dissi, – voglio vedermelo Ermanno, scendere tutti gli scalini fino a qui.

– Firmà, ci hanno fregato. Guarda là. – Pucci indicò nuovamente verso il mare, stavolta verso l’imboccatura della cala, dove un’imbarcazione faceva il suo trionfante ingresso. Sulla prua, in precario equilibrio, svettava un aitante Nanni Limoni, con la sua solita camicia di lino bianca, rigorosamente chiusa da due soli bottoni, un panama in testa e il dito puntato verso la spiaggia, come a voler indicare che senza di lui, la rotta sarebbe stata smarrita e non avrebbero mai trovato la spiaggia. Sempre a prua, ma seduta, c’era Lucia che cercava di catturare i caldi raggi del sole pomeridiano e vicino al timoniere, Ermanno che si reggeva come se stesse affrontando la tempesta perfetta. Seduti a poppa chiudevano Clementino Schioppa e una ragazza mai vista prima.

A pochi metri dalla battigia, un richiamo squarciò la quiete della spiaggia. – Aò – aveva gridato Nanni, che aveva lasciato la corda del tendalino e adesso, pugni sui fianchi, come la più iconica figura dittatoriale che si possa immaginare, si lanciava in un saluto romano che ci fece rabbrividire tutti. Da lontano vedevamo Ermanno che gesticolava ai suoi riguardi, certamente a volergli far capire che quel gesto era fuori luogo e per nulla marinaresco e di rimando lui lo mandava bellamente a quel paese.

– Nanni – disse Pucci, appena gli arrivò davanti, – sembravi William Shaw.

– Chi?

– Matthew Modine, il protagonista di Corsari.

– Chi?

– Vabbè, lascia perdere.

– Lascia perde i Corsari e parliamo de cose serie. Firmà – disse guardandomi, con tanto di gestualità, – ieri sera vamo massacrato che manco l’occhi ‘pe chiagne vamo lasciato.

– Prego?

– Ve lavemo sfonnato de brutto.

– Ma di che sta parlando – chiesi, guardando con aria perplessa Pucci, che sembrava più attonito di me e fece spallucce.

– Ah, Firmà, che fai er cojone per nun pagà ‘a dogana? Guarda che t’ho sgamato. Te dico solo ‘na parola – specificò, mettendo una mano a chucchiaio davanti la bocca, – Conceição. E t’ho detto tutto.

– Scusi, signor Limoni – interrompeva il proprietario della barca, con la borsa frigo che avevano portato, – che faccio, la porto giù in spiaggia o la lascio in barca?

– Ti ringrazio, caro – gli rispose, amabilmente, – adagiala pure con le altre cose, proprio qui, vicino i miei amici e vieni a rinfrescarti anche tu, unisciti a noi, che te lo meriti, dopo questa sfacchinata tra i flutti. – Poi tornò gesticolando su di me. – Vamo fatto un buscio de culo così.

– Si riferisce alla partita di Supercoppa di ieri sera – intervenne a chiarire tutto Giovanni, che si era ripreso e fugava l’idea che si era fatta strada nella mia testa, che Nanni mi avesse scambiato per qualcun altro, – Juventus contro Lazio, 1 a 2.

– Manco er rigore rubato va sarvato, a gobbi ‘demmerda.

– Pensavo tifassi Roma, – chiarì Pucci, – non di certo Lazio.

– E te sbagliavi. Capita.

– Guarda che io non tifo Juventus – mi sentii in dovere di specificare, – anzi, non tifo proprio per nessuno e nazionale a parte, del calcio mi frega veramente poco.

– Sì, ma de torinese qui ce stai solo te.

– Veramente, ci sarei anche io – disse Giovanni.

– E vabbè, ve lavemo buttato ar culo a tutti e due, te garba de più così. Anzi, de te so certo, enfatti proprio tu me dovresti pure ringrazià. Mo me vado a bagnà che sto a piglià foco come ‘na Giovanna D’Arco quarsiasi. ‘Nnamose, va.

Lo seguimmo tutti e quando gli altri si sistemarono, entrarono in acqua pure loro. Non era strano che buona parte di noi avesse superato i cinquanta e una manciata i sessanta, eravamo lì a goderci la vita, come se quel semplice atto di lanciarsi una palla, fare una nuotata e prenderci un po’ in giro, avesse la miracolosa capacità di cancellare tutti i tormenti che, in fondo, nascondevamo dentro di noi e ci facesse restare irrequieti adolescenti. Ci distendemmo poi tutti di fila sulla spiaggia, godendoci gli ultimi raggi del sole pomeridiano, che lentamente stava già scomparendo dietro il Castello, che torreggiava in alto nella montagna.

– Papà – esordì d’un tratto Giorgio, tornato dalla battigia, – ma perché la chiamano Baia delle Sirene?

– Non lo so, Giorgetto – rispose lui, abbassando la settimana enigmistica, – probabilmente perché tanto tempo fa c’erano delle sirene che gironzolavano qui.

– Dici?

– Eh, certo, Giorgetto mio.

– “Delle sirene che gironzolavano qui” – esordì, prontamente e a ragion veduta Nanni, quando il ragazzo si allontanò, – ma che cazzo de risposta è?

– Senti – scoppiò Priscilla, come se preventivasse da tempo un intervento di Nanni e non aspettasse altro, – non è che adesso devi tormentarci l’esistenza. Già ci hai fatto fare una figuraccia quando sei arrivato, ti ho sentito perfino io che stavo là in fondo… a chiedere informazioni per un giro in barca.

– E ‘nte potevi informà con noi e cor nostro barcaiolo?

– Io mi informo dove mi pare e piace. Guarda che siamo qui in vacanza e non vogliamo interferenze nella nostra vita da parte di nessuno, specie da parte di uno zotico come te. Se Giovanni dice che c’erano le sirene, quelle c’erano a gruppi e tu vedi di stare lontano da Giorgio e non rivolgergli mai più la parola in vita tua, altrimenti ti giuro che me la pagherai e se sento qualche altra corbelleria, ce ne andremo stasera stessa.

– Amo capito, Priscì, nun glie dico ‘nniente a Giorgetto tuo, te lo prometto. Però tu nun te ‘ncazzà così, sennò rischi che te torna er ciclo.

– Sei uno stronzo – disse alzandosi. – Giovanni, alla prossima ce ne andiamo sul serio e se tu non vuoi venire, mi prendo Giorgio e ce ne torniamo a casa da soli, chiaro. – Poi si allontanò lungo la spiaggia, insieme a suo figlio.

– A Giovà – replicò Nanni, quando lei fu abbastanza lontana, – magari sta minaccia è la cosa migliore che te potesse capità in sta vacanza.

– Ti prego, Nanni. Lasciala stare.

– Ho capito, però tu che gli dici a quella povera creatura, che c’erano le sirene. Già che nun me sembra sveglio sveglio, così ‘o confonni.

– Dai, Giova – aggiunsi io, – effettivamente… le sirene, ma che risposta è?

– Scusate, ma voi ne avete mai visto sirene?

– Le ha viste Firmato, quando sono andati a prenderlo – si intromise Clementino.

– No, seriamente.

– Ma che domande sono, Giova, no che non ne abbiamo mai viste.

– Non ne avete viste e non ci credete.

– No, mi sembra improbabile.

– Bene, però Dio, neanche lui avete visto, eppure a quello ci credete.

– Ma manco pe ‘nniente – rispose Nanni.

– Ah, no?

– Eh, no.

– Nessuno di voi?

– Mejo puzzà de vino che de acqua santa.

– Giova – gli dissi, – sono anni che ci conosciamo e ancora ci fai sta domanda. Mi sa che hai bisogno di una vacanza oltre questa, tu da solo, con te stesso. Per fare pace.

– Ma io sono in vacanza. E credo in Dio e alle sirene.

– Se sei contento tu.

– Comunque – intervenne Ermanno, – non sarebbe più giusto, branchi?

– Ma di che?

– Priscilla ha detto “gruppi” di sirene. Visto che sono per metà umane…

– La metà importante – aggiunse Clementino.

– …e per metà pesci, ma vivono in acqua, sarebbe meglio branchi. Branchi di sirene.

– Necessitavamo proprio di questa precisazione, amore mio – si espresse Lucia, che parlava solo quando non ne poteva fare a meno, – ma ti sbagli, al massimo “banchi”, non branchi.

– Vorrei aggiungere una cosa, se posso. – A parlare era stata la nuova ragazza, arrivata con loro sulla barca.

– Ma certo, cara, mica devi chiedere il permesso.

– Questa spiaggia è conosciuta come Baia delle Sirene, ma il nome meno… commerciale, diciamo, ma più comune, da queste parti è “Spiaggia Castellazzu”.

– In riferimento al Castello – specificò Giovanni, – giusto?

– Che perspicacia, Giovà – ironizzò Clementino. – Al castello ci credi, perché si vede che sta lì, non vorrei ti confondesse.

– Non ti risponderò nemmeno – replicò, – da me non avrai nessuna soddisfazione.

– Stai tranquillo, Giovà, nessuno si aspetta soddisfazione da te.

– Eccomi qua – interruppe Vincenzo, che era uscito dall’acqua senza che nessuno se ne accorgesse e portava con sé quattro enormi saraghi da almeno un chilo ciascuno e una rete piena di ricci di mare. – Eccovi tutti. Stasera pasta coi ricci e grigliata di saraghi da me. In più ho un vinello che vi farà diventere complet…. – Si bloccò di colpo, come se si fosse rotto, con lo sguardo fisso sulla nuova arrivata. L’imbarazzo che lei provò, vedendo quell’uomo bagnato, con dei pesci in spalla e un sacco di ricci spinosi, che sembrava un attrezzo per la tortura post medioevo, fissarla senza dire una sola parola, lo percepimmo tutti.

– A Vincè – intervenne Nanni, che aveva compreso, come tutti noi, la stranezza di quel momento, – ma che è, i pesci te se so magnati ‘a lingua?

– Quelli sono i gatti – precisai io, senza distogliere lo sguardo.

– I pesci se so magnati i gatti, ma è un controsenso.

– No, i gatti gli hanno mangiato la lingua.

– Sì, ma se veniva dar mare, che gatti ce doveva trovà la dentro. Nun sta né ‘ncielo né ‘ntera.

– No, non nel senso che… vabbè, lasciamo perdere.

– Vincenzo – intervenne miracolosamente Lucia, – questa è Pia.

– Piacere – disse lei, cogliendo la palla al balzo e porgendogli la mano da seduta, – io sono Pia Balestra.

– Piacere – rispose lui, – so chi sei.

– Ah, scusami, non ricordo dove ci siamo conosciuti.

– Abbiamo ballato insieme – rispose, per somma sorpresa di tutti. – È stato in un residence, vicino l’ancora di Marina, il Fer.

– Sinceramente, non ricordo.

– Io sì. È stato nel settantasette, precisamente il 24 dicembre, era un sabato.

– Cazzo, anche il giorno si ricorda – dissi sottovoce a Giovanni che mi stava a fianco.

– Come ho detto abbiamo ballato, tu avevi un lungo vestito verde bosco, i capelli sciolti e gli occhi troppo vispi, perché io non ti amassi all’istante.

– Che ha detto?

– Aspetta Giovà – lo fermò Nanni, – che mo so cazzi.

– Io, sinceramente… – provò ad azzardare lei, ma fu subito interrotta.

– Abbiamo fatto l’amore quella sera e tu mi regalasti questa. – Mise in mostra il ciondolo che portava sempre al collo, una piccola piuma color argento. – Me la desti dopo quella notte e poi non ti rividi più. Fino ad oggi.

– Io, sinceramente… non ricordo.

– Non puoi non ricordarti.

– Dico davvero, non mi ricordo.

– Ma abbiamo fatto l’amore.

– Questo lo dici tu.

– Ma come, lo dico io.

– E poi sono passati, quanti…

– Ventuno – precisò puntualmente Lucia.

– Ventuno anni. E chi si ricorda.

– Mi ricordo io.

– Beh, complimenti, io no.

– Impossibile.

– Impossibile, addirittura e come mai dovrei ricordarmi.

– Perché tu… – si fermò e noi che passavamo lo sguardo dall’uno all’altra e che conoscevamo bene Vincenzo e sapevamo che non aveva mai titubato nel dire qualcosa, capimmo che doveva essere qualcosa di veramente serio.

– Perché io, cosa?

– Niente, lascia perdere.

– No, adesso me lo dici – pretese, alzandosi e mettendosi davanti a lui.

Vincenzo si sporse verso di lei, avvicinò la bocca al suo orecchio e bisbigliò qualcosa.

Pia lo guardò fisso e poi, senza dire nulla, prese al volo le sue cose e si incamminò verso la scala, che dalla spiaggia portava verso il parcheggio sulla montagna e poi alla strada. Lui rimase fisso a guardarla, impassibile come era di solito.

– Ma che le hai detto – chiese Ermanno.

Lui non rispose, continuando a guardarla allontanarsi.

– Che le ha detto – ripetè, girandosi verso di noi.

– E che cazzo ne so – risposi.

– Almeno valle dietro, no – disse Lucia.

Improvvisamente, come risvegliato, lasciò tutto il pescato a terra e le corse dietro. La raggiunse e li guardammo salire le scale insieme e non tornare più.

– Hai capito Vincenzo – esordì Nanni, – gliel’ha buttato.

– Certo che a volte sei un’animale – disse, alquanto schifato, Ermanno.

– A volte – riprese Giovanni.

– E che ho detto, ‘na fregnaccia, è vero. L’ha confermato lei, scappando così.

– Di certo ci sono dei presupposti meravigliosi – aggiunse Pucci, – peccato che tra un po’ andrò via. Ma voi mi racconterete tutto quando ci rivedremo.

– Ma non puoi restare di più – chiese Ermanno, – e poi perché sei sceso per un solo giorno.

– Per assistere a questo – rispose, – e poi questo sole mi indebolisce e poi le cose belle devono durare sempre poco, altrimenti ti abitui e diventano uguali a tutte le altre. E poi ho preso impegni con una pulzella.

In effetti, tralasciando la visione della vita di Pucci e la delicatezza che contraddistingueva l’avvocato Limoni, sembrava proprio così. Restammo tutti voltati verso di loro, che non c’erano più, ognuno cercando di capire cosa potesse essere successo ed era evidente che morivamo tutti dalla voglia di sapere cosa gli avesse detto e come sarebbe andata a finire. Quella sera stessa portammo il pesce alla Luna, che i proprietari ci cucinarono apposta. Ma di Vincenzo e di Pia, neanche l’ombra.

– Ma tu l’hai sentito, no, che ti ha detto?

– Ma niente, Giova, te l’ho appena detto, nulla di nulla.

– Solo che non veniva?

– Precisamente, solo che non veniva.

– E lei?

– Non ho chiesto.

– Ma come, non hai chiesto.

– Saranno anche fatti loro – chiarii, cercando di far capire che non mi interessava nulla.

– E tu l’hai sentita – chiese a Lucia.

– Lo stesso, non mi ha detto nulla e prima che tu me lo chieda, non ho chiesto nemmeno io.

– Sta a vedere che l’unico stronzo, curioso sono io.

– Gioggiò – disse Clementino, – tu sei curioso per natura, o no?

Giovanni passò da lui a sua moglie Priscilla, che intenta a guardare che suo figlio non si allontanasse troppo, non stava ascoltando o verosimilmente, stava fingendo di non ascoltare.

– Certo che quel signore è proprio bravo – si intromise Ermanno.

– Ma chi, er sassofonista?

– Sì.

– Se nun me sbaglio è lui er proprietario de sta baracca. Vincenzo o conosce, ma forse Firmato ce po’ di quarcosa.

– Sì, è il proprietario. Si chiama Gino e a quanto pare è un’istituzione da queste parti. Tutti lo chiamano zio Gino.

– Certo che è proprio bello qui – disse Giovanni, – bell’aria, bel posto, bella gente.

– Soprattutto, bella gente – specificai, indicando con lo sguardo un ragazzo che stava poggiato sulla ringhiera di fronte al locale.

– Ma che è – disse, sporgendosi verso di me, – ti piace quello?

– No, Giova – chiarii, guardandolo con immensa comprensione, ma anche con un pizzico di fastidio, – non piace a me, ma a tua moglie.

– Priscilla?

– È lei tua moglie, no?

– Sì, certo che sì, vorrei capire chi sia quello. Aspetta, – sì illuminò, – è il ragazzo della barca. Ma che fa là?

– Se la mangia con gli occhi.

– Ma dai, Priscilla avrà almeno trentacinque anni più di lui.

– Embè, – si intromise Nanni, che aveva ascoltato la conversazione e da buon osservatore aveva compreso tutto, – no ‘o sai er detto?

– Che detto?

– Daje e daje, pure li piccioni se fanno quaje.

– E in soldoni, sarebbe?

– Che a fine da fiera, du botte nun se rifiutano a nessuno.

– Mi viene da vomitare – disse Giovanni.

– Ma perché, effettivamente è da comprendere – chiarii, – parliamoci chiaro, noi lo sappiamo e tu pure…

– E pure lei ce o sa.

– Infatti, ha ragione Nanni, lo sa anche lei. Tutto si regge solo per Giorgio e arrancate ormai da anni, dimmi tu se quella povera donna non possa, mentre è in vacanza in un posto paradisiaco come questo, per una volta nella vita, diciamo…

– Farse da du sventagliate messe bene, da un bel regazzotto.

– Oh, Gesù.

– Non in questi termini, o magari non così esplicitamente, ma sì. Che diavolo ti frega.

– Devo andare.

– ‘Ndo stai annà?

– A vomitare – esplicitò e senza dire nulla, scomparve dentro in cerca di un bagno. Fu emblematico vedere con quale naturalezza, seppur mantenendo una certa discrezione, Priscilla colse l’occasione per alzarsi e con la scusa di richiamare Giorgio, avvicinarsi a quel ragazzo e scambiare due veloci parole. Poi si rimise a sedere e ad ascoltare il gruppo suonare, capitanato dallo zio Gino. Giovanni tornò dopo almeno due canzoni.

– Hai vomitato?

– No.

– E che hai fatto?

– Niente, mi sono lavato il viso.

– Hai pianto?

– Diamine, Firmato, no.

– Vabbè.

– Comunque, quel tipo è andato via. Non ha fatto nulla, giusto?

– E che doveva fare – mentii, – forse ci siamo sbagliati.

– Enfatti, magari se stava ad ascortà ‘a musica, come tutti noi. Nun ce pensà, godite ‘a serata.

Avevamo mentito tutti, anche gli altri avevano probabilmente capito e fatto finta di nulla. Un silenzio assenso che avrebbe giovato a tutti, specialmente a Priscilla, di certo, ma anche a Giovanni. Quella sera andammo a dormire tutti un po’ provati dagli avvenimenti. La mattina seguente e per tutte le altre che ci furono, Giovanni non trovò mai Priscilla accanto al letto e quando scendevamo per la colazione, lei era già lì ad aspettarci. Nessuno disse mai nulla, neanche tra di noi ne parlammo e di certo Giovanni non ne fece mai menzione. La cosa che però fu chiara a tutti, si evinceva dal sorriso che Priscilla aveva stampato sul volto, che non nascondeva a nessuno, ogni volta che eravamo assieme.

L’ultimo giorno, quando stavamo mettendo i bagagli nelle auto che ci avrebbero portato all’aeroporto di Palermo, per tornare alle nostre rispettive vite e destinazioni, avvenne l’ultimo episodio di quelle vacanze.

– Guarda mamma – disse Giorgio, – zio Vincenzo.

– Non è tuo zio – specificò lei che, per nulla sorpresa, continuava a sistemare i suoi bagagli.

– Ma guarda un po’ chi c’è – disse Ermanno, – il ritorno del figliol prodigo.

– Se, come no – aggiunse Nanni, – prodigo de seme.

– Ragazzi… – esordì lui, – ragazzi, ascoltatemi, ho fretta.

– Che c’è, te aspettano ar consultorio?

– Mi sposo.

– Cosa – dissi stupito, anticipando il pensiero di tutti, anche di Priscilla, che aveva fermato la sua frenesia di lasciare quel posto.

– Mi sposo, qui alla chiesa Madre, sposo Pia.

– Vabbè, scherzi, come sempre.

– Sono serissimo.

– E quando?

– Il ventisette di dicembre. Ho già pensato a tutto, è anche domenica, c’è il Natale di mezzo, facciamo ponte lungo.

– Tornare di nuovo qua – si intromise Priscilla, – per Natale, non se ne parla nemmeno. Ne ho avuto abbastanza di questo posto.

– Beh, come glie poi dà torto – mi sussurrò inopportunamente, Nanni, – de avere ha avuto.

– Ma sei sicuro.

– Mai di nulla, come questa volta.

– Anche se secondo me, mio parere eh, a sentilla, proprio abbastanza abbastanza non è mica stato.

– E quindi ci vuoi tutti qui, di nuovo.

– Sarà l’evento dell’anno.

– Artre du botte, magari, gliè possono solo fa bene ae coronarie…

– Nanni – lo interruppi, mordendomi le guance per non ridere, – non è il momento.

– Come voi te, Firmà, così però me fai rabbuià.

– Guarda che è difficile organizzarsi di nuovo – gli dissi, cogliendo assenso nello sguardo di tutti.

– Vi prego, amici miei, per me è importante.

Erano otto parole che non avevamo mai sentito pronunciargli. Un evento più unico che raro, qualcosa che, come per magia, ci aveva tutti convinti all’istante. Aveva un’espressione troppo convinta per non poterlo supportare. A fatica, Giovanni, convinse anche Priscilla e quattro mesi dopo, ci ritrovammo nuovamente in quel posto straordinario, a passare le vacanze di Natale e prepararci per un matrimonio che ci sembrava incredibile.

– Firmato, per favore, spiegati meglio – mi pregava Pucci, mentre da dietro si sporgeva a chiedermi ancora una volta chiarimenti e delucidazioni in merito all’accaduto, – ha proprio detto “vi prego, è importante”?

– Pucci, ha detto “amici miei”, capisci. Ci ha chiamati “amici miei”. Tutti.

– Tutti, tutti?

– Sì, Pucci – confermò Ermanno che stava alla guida, – tutti.

– A Pier Crescè – tagliò corto Nanni, che stava cercando di far funzionare il suo nuovo Star tac, – ma te ‘o sai, pure, a chi ha chiamato amica?

– A chi, Nanni, a chi – lo incitò lui, pregustandosi la risposta come il più avido dei satanassi, – dimmelo, che questi non si sbottonano.

– A quella busta de vomito de Priscilla. Ho detto tutto.

– Che altissimo momento di rivoluzione umana, ma perché ho deciso di non venire, che mi ha detto la testa.

– Ma come, non eri quello del… com’era, i momenti devono durare poco e minchiate simili. Caro Pucci, stavolta hai toppato.

– Chiarito che sei un coglionazzo, visto che ti sei perso sta sei giorni incredibile, ma armeno hai schiacciato? Nun me dì de no, che te lancio fori da sta machina.

– Non era quello il fine, era una cosa più delicata, un’esperienza diciamo, formativa. Comunque, sì ed è stato molto appagante.

– Non sei stato il solo.

– Chi di voi e con chi? Maledetti, vi odio.

– Se to dico, te ce lanci da solo de fori.

– Sì, infatti, tieniti forte che questa è davvero una chicca – confermò Ermanno.

– Sono pronto, sparate.

– A busta.

– No, ma con chi, con Giovanni?

– Se, vabbè, capisco che ‘a Sicilia fa resuscità tutti li bollori assopiti, ma li miracoli nun li pò mica fa. E ‘nnamo.

– Dovete raccontarmi tutto.

Gli raccontammo ogni cosa, tra noi era possibile e doveroso e non c’era nulla di male nei confronti di Giovanni. Ma se quella storia era stata una vera commedia, nessuno di noi era pronto per quello che sarebbe successo per quelle feste. Scendemmo tutti in Sicilia, ma proprio tutti e trovare posto in quel Paese non fu affatto semplice, ma per le nozze di Vincenzo era doveroso e necessario. Andare alla Luna a dicembre era impensabile, a causa del freddo, che pungeva anche lì e quindi restammo in paese. La notte di Natale la passammo a giocare a carte, tutti riuniti a casa di un’amica di Pia, una certa Rita Marichiaro.

– Ma come fa il Full ad essere superiore al Colore – si chiedeva Alfonso, buttando le carte sul tavolo.

– È così è basta – chiariva Vera, – rassegnati è la vita.

– Eh, no. Spiegamelo.

– Ma che ti spiego, Alfò, sono le regole.

– È questione di probabilità – chiarì, Ermanno. – Statisticamente è più difficile che escano tre carte uguali, seguite da due, su un range di otto carte uguali in un mazzo doppio, che cinque carte dello stesso seme.

– Aspè, puoi ripetere – chiese Nanni, mentre si scolava il terzo drink della sera, – che de matemetica nun c’ho mai capito na sega.

– Nanni, è statistica. Ti ricordo che nel Texas Hold’em si usano due mazzi.

– E perché non vale per il poker all’italiana?

– Ma che dici, per il l’italiana è uguale, – disse Gigi, che per non perdersi l’occasione era volato dalla Spagna fino a lì.

– E no, per quello è al contrario, il Colore batte il Full.

– Ma come?

– Eh, sì – chiarì, con un po’ di eccessiva spocchia, – e immaginate che li si usano tante carte quanti giocatori al tavolo.

– Me so perso. Me dovete venì a cercà, perché me so perso.

– Facciamo che avete ragione voi e basta – sentenziò Alfonso.

– Ma non è che siamo noi ad avere ragione e tu torto, sono le regole.

– Enfatti, Arfò, stacce.

– Eccoci, ragazzi – esordì Vincenzo, che entrava tenendo per mano Pia. – Scusate ma i suoi ci hanno trattenuto. Che ci siamo persi?

– Niente, siete voi l’anima della festa, – dissi, alzando il mio bicchiere di Biancosarti, – salute.

Brindammo tutti e tutti eravamo contenti e tranquilli, solo Gigi era, strano a dirsi, un po’ nervoso, a causa del suo volo che prima era stato cancellato e poi aveva fatto ritardo. Si era fiondato alla festa direttamente da Punta Raisi, lasciando le valigie all’ingresso.

– Ci sei anche tu, sono contento – disse Vincenzo.

– Non me lo potevo perdere, anche se ci hanno provato tutti a fermarmi.

– Perché, che è successo.

– Entrambi gli aeroporti principali, sia Catania e sia quella maledetta di Palermo, erano mezzi chiusi per non so quali incendi.

– Assurdo.

– Non si riusciva ad arrivare in questa merdosa, isola maledetta.

– Dai, Gigi – gli disse Pucci, – questo la rende solo più premium.

– Ma che premium, è letteralmente una chiatta di immondizia.

– Minchia, Gigi, bevici su che il tuo dottore è in spagna e tuo fratello non è cosa.

– La prossima volta mi resto a Madrid.

– Sei un bastardo scalda divano, ecco che sei. Bevi e basta. – Gli mise un bicchiere in mano e lo spinse via.

– Comunque, Palermo è la più bella città d’Italia, se non d’Europa, quindi pochi cazzi, anche se va a fuoco. E poi sei atterrato, quindi è andata bene e puoi goderti il nostro matrimonio.

– Credimi – si intromise nuovamente Pucci, – ci vuole ben più di un incendio per migliorare Palermo.

– Non mi farai arrabbiare, oggi, caro Pier Crescenzo, tra due giorni cambio vita e niente mi bloccherà l’entusiasmo.

– Qualcuno vuole del Pandoro – disse dalla sua cucina, Rita, che senza aspettare una risposta entrò con un Pandoro, versò lo zucchero a velo dentro il sacco che lo conteneva e dopo averlo agitato energicamente, lo tagliò e cominciò a servirlo.

– A me piace il Pandoro – disse Pucci, – ma… e scusami se mi permetto, non avresti un panettone classico.

– Sì e ho anche diversi gusti. Cioccolato, limoncello…

– Classico, se non chiedo troppo.

– Non ti facevo tipo da Panettone – gli dissi.

– Sì, mi piace trovare a sorpresa l’uvetta o i canditi, danno quel senso di insolito a qualcosa che di norma non lo è.

– Io amo il Pandoro, invece, proprio per la sensazione opposta. So ciò che andrò a trovare e non voglio sorprese, buone o cattive che siano, mi piace sapere che almeno in quel caso, non troverò nulla.

– Non è un po’ navigare su acque conosciute, non ti facevo così.

– Spesso le acque conosciute sono quelle che ti danno maggior conforto.

– Ma col le onde tutto si mescola e le correnti ti portano in luoghi sconosciuti.

– E con l’acqua cheta ti godi la tranquillità e puoi guardare il fondo.

– Aò – ci interruppe Nanni, – nun ve fate problemi, se volete scopà noi ce ne annamo de ‘llà. – Non ci eravamo accorti che a quel veloce scambio stavano assistendo tutti, in estremo silenzio.

Scoppiammo a ridere tutti quanti e la serata proseguì tranquilla. Il giorno di Natale assistemmo alla festa religiosa del paese e nel pomeriggio girammo Agrigento, anche se era tutto chiuso per le feste. Per il pranzo seguente, quello di Santo Stefano, il giorno prima del matrimonio, ci ritrovammo tutti da Cannavacciuolo, nel suo “Signore di Salino”.

– Firmato, l’hai detto e l’hai fatto.

– Non potevamo mancare, Geppo. E poi per il matrimonio di Vincenzo, era d’obbligo.

– Grande signor Cannavacciuolo – si inserì Gigi, – si ricorda di me?

– Certo, gli amici di Firmato sono anche i miei, mi ricordo benissimo.

– Cosa ci ha preparato di buono?

– Qui ogni cosa è deliziosa – cominciò lui, con quella sua voce cantilenante, mentre gesticolava amabilmente, – e ogni ospite è un amico. Vivrete un’esperienza unica, che vi emozionerà i sensi e vi lascerà smarriti, frastornati dai sentori di questa misteriosa isola, che ci dona i frutti più preziosi di mare e di terra e ve ne andrete tronfi e appagati, con la voglia di tornare a gustare le irrinunciabili pietanze che abbiamo solo noi.

Io lo adoro – mi sussurrò all’orecchio, gli strinse la mano e andò a sedersi.

– Grande Geppo, raggiungo gli altri. Oggi siamo praticamente tutti, un sacco di gente.

– Più siamo, più ci divertiamo. Vai e godetevi il pranzo. Pensiamo a tutto noi. E dunaci na vasata a Enzuzzu.

Eravamo davvero quasi tutti. Lì presenti a festeggiare il matrimonio più improbabile che si potesse immaginare, ma c’eravamo. Certo pieni di tensione, per i rapporti altalenanti di alcuni di noi, per i cazzi personali e perché pensavamo che fosse davvero assurdo che la felicità avesse fatto breccia nel cuore di Vincenzo, così, dal nulla e senza preavviso, ma diavolo, c’eravamo.

– Firmato – mi tirò per la giacca, Giovanni.

– Dimmi.

– Tu ci credi alle coincidenze?

– Vorrei non farlo. Di che coincidenza parli?

– Ricordi il ragazzo delle barche di questa estate?

Devo ammettere che mi gelò per un attimo il sangue nelle vene. – Sì, lo ricordo. E allora?

– Pensi che possa anche fare il cameriere?

– Credo che sia improbabile fare come unica occupazione l’affitta barche, quindi a meno che lui non sappia qualcosa che a noi sfugge, ipotizzo sia possibile.

– Allora è proprio lui che ci lancia occhiate, da quando ci siamo seduti. E Priscilla non è nemmeno con noi.

Girai lo sguardo e lo beccai subito. Nell’arco di due minuti, tutti i membri al tavolo che erano a conoscenza degli eventi dei mesi scorsi, compresero ciò che stava accadendo. Non sapevamo che pensare, ma alcuni di noi, ognuno a modo suo, provarono ad azzardare qualcosa.

– L’ho vista andare in macchina prima, quindi tranquillo. Forse è una coincidenza – disse Ermanno.

– No, ermà, ci ha pedinati da quando abbiamo lasciato La Luna e adesso sta pianificando la sua mossa definitiva.

– Che spirito di patata, Clementì.

– Ragazzi, aspettate, ma quindi è lui – chiese Pucci.

– Sì, è lui, nun lo vedi er coraggio che glie sprizza da tutti li pori.

– Io ho un’idea.

– Sentiamo.

– Lo vado ad affrontare.

– Ma che glie devi dì, Giovà, statte seduto, che niente niente finisce che te rifila du botte pure a te.

– E se magari mi piacesse – azzardò Giovanni, a mo’ di sfida.

– Anvedi questo, che cresta se sta a fa arzà, quanno te dice male mozzicano pure ‘e pecore.

– Verrà il giorno in cui ti gonfio, scrivitelo.

– Marimbarzi, proprio.

– Calma ragazzi – disse Gigi, – mi spiace dirlo e sottostimare la situazione, ma in questo momento dobbiamo pensare a cose ben più importanti. Guardate, sta arrivando la pasta agli scampi. Ne riparliamo dopo.

Come se tutti avessero acconsentito a quell’assurda proposta di tregua, cominciammo a mangiare e la cosa restò a vagare tra gli sguardi e i pensieri di tutti. Priscilla prese posto e cominciammo a mangiare.

– Deliziosa – affermò Gigi, – troppo buona.

– Effettivamente è davvero ottima.

– Vado un attimo in bagno – disse Giovanni, dopo aver finito il suo piatto e scomparve dietro il locale.

– C’è da preoccuparsi – mi chiese Vera, dall’altra parte del tavolo.

– No – mentii, – tranquilla che è tutto sotto controllo.

– Dici che sia davvero così – mi chiese Pucci.

– Secondo me si, dai – gli risposi, mentendo anche a lui, – anche se tutti siamo in balia del caos, come sempre. Questi due manca poco che s’ammazzano.

– Secondo me dovremmo preoccuparci. Sento l’aria elettrica stasera, probabilmente davvero ci scappa anche la rissa. Perché non c’è matrimonio che si rispetti, senza tresche e guai. – Bevve un lungo sorso di Glicine e si mise comodo sulla sedia, come se i suoi superpoteri gli facessero presagire la tragedia.

– Amici miei – esordì Vincenzo, alzandosi rumorosamente dalla sedia, vistosamente sotto l’effetto di diversi bicchieri e confermando con una tempestività che aveva davvero dell’incredibile, il pensiero di Pucci. – È arrivato il momento che tutti aspettavate, il fottuto brindisi. – E scandendo le ultime parole, con un tono di voce decisamente sopra le righe, rovesciò mezzo bicchiere tra la tavola e le gambe di Rita. – Oh, scusa Rita – disse, cercando di asciugarla con un tovagliolo.

– Non fa nulla – disse lei, un po’ a disagio, – lascia fare a me.

– D’accordo, d’accordo, fai tu. D’altronde – aggiunse, – testimone bagnata… eh eh eh…

– È andato – disse scioccato, Ermanno – completamente andato.

– Ma che è, gliè partita ‘a brocca?

– Starà scherzando.

– Minchia, Ermanno – specificò Clementino, – oggi proprio non ti sfugge nulla.

– Sì, ma non è uno scherzo che lo condurrà su strade battute.

– Mo ‘o vedemo come finisce.

– Brindo, non per ordine di importanza, ai miei amici, che nonostante so che pensino sia prematuro e illogico, sono qui a darmi il loro supporto. Beviamo.

Bevemmo tutti, non senza circospezione. – Fin qui sembra andare bene.

– Poi ai nostri testimoni, Rita e Firmato, che invito a dire qualcosa.

– Firmà, poi mo devi dì come ta convinto.

– Andiamo Rita, tocca a te.

– Io passo, non me la sento.

– E non te la devi mica sentire – disse, tirandola per un braccio, – devi essere spontanea.

– Mi stai facendo male.

– Vincenzo… – si intromise Pia, chiamandolo al buon senso.

– Faccio io – irruppi, cercando di riportare l’ordine che vedevo disfarsi. Mi alzai e cercando di attirare l’attenzione di tutti su di me, per distoglierla dalle facce torve di testimone e futura sposa, cominciai. – Ho conosciuto questo sfaticato moltissimi anni fa, quando ancora nessuno dei due aveva capito che diavolo doveva fare della propria vita. Certo io avevo le cose più spianate di lui, ma solo perché sono molto più affascinante e, diciamolo, di gran lunga più furbo. – Quando, vedendo qualche sorriso spuntare qua e là e tutti che ripresero posto e si sistemarono, mi consolai un po’. – Dopo cinquantacinque anni di vita, decide finalmente di sistemarsi, con una splendida donna, che sono sicuro sarà in grado di accompagnarlo in bagno ogni volta che ne avrà bisogno.

– Pe mannallo a cagare.

– Giusto, soprattutto per quello. Comunque, nonostante tutto si possa dire di lui, tranne che sia una persona semplice, posso assicurarvi che è un uomo straordinario e a lui mi lega una forte amicizia, lunga anni, che questo anello può testimoniare. – Alzai l’anello al mio indice sinistro, lo stesso che ho indosso al momento e lui fece lo stesso. – Quindi, ricordando questo, cedo la parola alla testimone e la invito a sbrigarsi, che dobbiamo bere.

– Sarò velocissima – disse Rita, alzandosi svogliatamente, – anche se vedo che avete già cominciato a bere da molto. Pia è sempre stata una ragazza speciale, per me. Siamo amiche da tanto e conosco la sua famiglia, i suoi fratelli, i genitori e persino i nonni. Mi hanno sempre considerata come una di famiglia e poter testimoniare, agli occhi dei suoi amici e di Dio, l’unione con quest’uomo, è un onore che mi rende fiera e orgogliosa. Grazie a tutti. – Terminò, tra gli applausi.

– “Davanti agli occhi di Dio” – ripetè Nanni, – nun se po’ proprio sentì. Ma come cazzo ha fatto a ridusse così?

– È solo felice.

– Pemmè se piegato tarmente tanto, che se sta a guardà da sotto er buco der culo.

Clementino sputò il vino con una risata e quasi tutti lo seguimmo. Mentre arrivava il polpo, piatto tanto desiderato da Vincenzo e le mie speranze che tutto proseguisse secondo i piani, sempre nell’attesa che il matrimonio dell’indomani, avesse un seguito simile, prendevano più sostanza, arrivò la bomba.

– Forza, testimoni, raccontate un aneddoto dei vostri rispettivi compari, coraggio – disse Gigi, che fino a quel momento era rimasto a mangiare, in preda all’estasi.

Quando tutti cominciarono a cadenzare il mio nome, mi toccò alzarmi. Feci mente locale, per evitare disastri, ma le cose che riguardavano Vincenzo erano una peggio dell’altra, così, non volendo raccontare una cazzata, cercai la meno peggio. – Ecco, ci sono.

– Mo so cazzi.

– Perché – chiese l’ignaro Gigi.

– Dire qualcosa di positivo su Vincenzo è come far passare er piscio de gatto pe un Don Pérignon. ‘Ncià poi mica fa.

– Un giorno, o meglio, il giorno che mi lega di più a Vincenzo, fu quando giravamo insieme per la Riviera. Era estate, molti capelli fa e molte marachelle fa. Inutile dirlo, eravamo due piacioni e cercavamo sempre di combinarne una….

– Eccallà….

– …ma lui mi ha sempre appoggiato, consigliato, mi è stato accanto quando ne avevo bisogno.

– Fino a quando non ho provato a fotterti la tipa. Ricordi.

Era un sabotatore, nulla da dire, gli riusciva benissimo, ma non credevo provasse gusto a sabotare sé stesso. Certo, Pia doveva sapere com’era, altrimenti non se lo sarebbe sposato, quindi stetti al gioco. – Ma non ci sei riuscito.

– Perché sono un coglione.

– No, perché sei una brava persona.

– Fidati, è perché sono un coglione.

– Ci rinuncio – dissi sottovoce ai ragazzi vicini. – A te, caro amico coglione.

Tutti risero per assecondare quel momento. Poi toccò a Rita. – Io in realtà non so che dire. Posso azzardare solo che ho conosciuto Pia alle superiori e da quel giorno sempre insieme, università, feste ed anche oggi, siamo qui. Ne abbiamo fatte di cose un po’ pazze, ma sempre nei limiti, per carità. – A quelle parole fummo io e Pucci ad accorgerci che Pia sorrideva impercettibilmente, come a voler nascondere a tutti, ma non a sé stessa, che quel “sempre nei limiti” non fosse proprio l’affermazione corretta. – Comunque, posso solo dire che anche la mia Pia è una ragazza meravigliosa e anche se la sto consegnando a questo mascalzone, il nostro motto è e rimarrà sempre “non far sapere al tuo vicino…” – iniziò, chiamando a sé l’amica che le si mise a fianco e insieme terminarono la frase, alzando le mani unite in aria, – “quant’è buona l’uva con il vino”.

Quando si abbracciarono partirono gli applausi e cominciarono a versarsi bicchieri e la festa sembrò immediatamente ripartire. Per tutti, ma non per Vincenzo. Quel caos da festa fu così breve, immediato e intenso, che sembrò come se tutti si fossero drogati. Tutti in piedi, a brindare, sorridere e gridare e poi, d’improvviso, tutti fummo gelati da un fortissimo botto che quasi non spaccò il tavolo. Era stato Vincenzo. Ci girammo tutti a guardarlo, stralunati da tanta improvvisa irascibilità.

– Non far sapere al tuo vicino, quant’è buona l‘uva…. con…. il vino…. – termino le ultime parole cadenzandole con altri tre pugni sul tavolo, uno più intenso dell’altro, che fecero cadere bottiglie, bicchieri e posate e l’ultimo, il più devastante, fini per far rovesciare sul tavolo, l’enorme polpo che regnava al centro, in un grande vassoio.

Il silenzio regnò sovrano. Tutti eravamo allibiti e storditi. E nessuno voleva azzardarsi a dire nulla. Ruppe quella tensione solo Gigi, con lo sguardo fisso sul polpo rovinato. – Che spreco.

– Tesoro…

– Tesoro sta minchia – esplose. Poi si rivolse a noi. – Scusate ragazzi, ma come avrete ben capito, questo fottuto matrimonio non sa da fare. – Spinse via Pia in malo modo e se ne andò dal ristorante.

– Me cojoni. E io che pensavo che saresti stato tu a mannà tutto ‘ncaciara.

Guardai Pucci, che in mezzo a tutto quel delirio, era l’unico rimasto seduto, con un pezzo di polpo nel piatto. – Che minchia sei, il demonio?

– No, mi sono sbagliato, non c’è stata nessuna rissa.

Proprio sul finire di quelle parole, vedemmo arrivare Giovanni, dal fondo del locale. Si stava aggiustando la camicia dentro i pantaloni.

– Ma dov’eri finito – gli chiese suo fratello.

Arrivato al tavolo prese un tovagliolo e si asciugò la bocca, poi si riempì un bicchiere di vino, bevve e si sciacquò la bocca. Poi, prima di mandare giù tutto d’un fiato l’ultimo sorso rimasto, gli rispose. – A prendermi la mia parte.

Gli unici a scoprire perché Vincenzo si fosse tanto incazzato per quelle parole, come vi ho detto, fummo io ed Ermanno, un giorno che riuscì a sbottonarsi, anche se non ci disse mai cosa le sussurrò all’orecchio, in spiaggia. Non lo confessammo mai a nessuno e non lo farò neanche io oggi, con voi, anche se ormai non ne varrebbe neanche più la pena. L’unico che ci aveva visto giusto era stato Pucci, che aveva intuito tutto. E poi c’era Giovanni, che si era preso ciò che credeva gli spettasse. Nessuno di noi se lo aspettava, ma d’altronde, le cose inaspettate, sono sempre le più piacevoli. O no?

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