21 CAP. 13 – “O come Ostriche”

Nota dell’autore: Questo capitolo segna la ripresa della stesura del racconto dopo due anni di inattività dalla scrittura.

(Giorno tredici)
È sera. La pioggia di ieri era piacevole, ma è durata tutto il giorno e come le cose che durano troppo, alla fine ha rotto le palle. Fortunatamente da qualche ora ha smesso di cadere e fuori domina un silenzio innaturale e insolito visti i tempi, ma non mi azzardo a mettere un piede fuori, mi basta l’immaginazione. D’altronde, dopo novantanove anni, ne ho visti fin troppi di tramonti e a voler dare ragione al mio amico Pucci, mi è venuta fame.

Ormai nella dispensa non c’è molto e sinceramente mi sono abituato a non pretendere più chissà che. La mia fortuna è il figlio dei vicini che ha molta più volontà di me e il buon cuore di pensarmi e portare sempre qualcosa da mangiare. Ma non ha tanta scelta e se l’avesse, gli manca la fantasia, per fortuna compensa col coraggio. Di sti tempi uno dei due requisiti è fondamentale per andare avanti. E ora mentre mi arrangio con le cose che mi restano, penso al 1997, precisamente il 19 luglio del 1997, quando assaggiai il mio piatto preferito nella sua volta più memorabile, di quelle che vanno ricordate come le preghiere semplici ed efficaci, ostriche Belòn, durante il matrimonio di mio figlio.

− Bernardì, vieni qui che ti aggiusto la cravatta.

− Non hai niente da aggiustare papà, è perfetta.

− Lascia fare, vieni qua − insistetti − che metti vincoli alla ritualità? Non si fa, porta sfortuna. Stai dritto con la schiena e fatti aggiustare sto nodo.

− Papà, secondo te sto facendo la cosa giusta a sposarmi?

La camera da letto di mio figlio era accogliente e ordinata. Vivevano assieme da un paio d’anni ed era venuto il momento, dopo cinque anni e passa di attesa, di vincolarsi ancora di più. In mezzo c’era stata la morte di mio padre e una brutta lite tra me e mio figlio proprio a causa di quell’evento, ma che ora si era fortunatamente risolta. Me la fece lì la domanda, tra lo specchio dell’armadio e la pediera, mentre gli aggiustavo il nodo alla cravatta, come nelle più scenografiche immagini da film. Mi poneva la domanda delle domande, il dubbio amletico che avvolge ogni uomo, prima o poi, “sto facendo la cosa giusta a sposarmi”.

Era intelligente Bernardo mio, perché solo le persone intelligenti si pongono domande simili, quando mettono in dubbio proprio quello che di più vogliono al mondo. Bisogna essere convinti nella vita, specie quando si rinuncia a qualcosa d’importante come la libertà. E il matrimonio la libertà te la toglie, ci sono pochi cazzi su questo. Lasci qualcosa di bello, che conosci, per qualcos’altro di presumibilmente bello, che credi di conoscere, ma che in fondo non conoscerai mai: le altre persone. È sempre affascinante, sì, ma sempre a qualcosa hai rinunciato e devi esserne convinto, perché se poi ti capita di smettere di desiderare la cosa che ti ha fatto rinunciare alla libertà, allora si è fottuti e non si odia solo quella cosa, ma si comincia ad odiare anche se stessi. Io a mio padre non l’avevo chiesto ed ero stato uno scemo. Non per com’erano andate le cose con Eleonora, ma perché mi ero perso l’opportunità di qualcosa e se si perdono le opportunità, si perdono anche le possibilità e quelle servono per l’esperienza. Ora, senza quell’esperienza e carico di responsabilità, dovevo pur rispondergli qualcosa e dissi l’unica cosa che potevo dire a quel trentenne di mio figlio, che si capiva dallo sguardo che si stava cagando sotto.

– Tu non hai bisogno di nessun consiglio da me e non perché io il mio matrimonio l’ho sbagliato tutto, quello anzi potrebbe servirti per capire quali sono le cose da fare e quelle da evitare assolutamente, ma perché sai capire con la tua testa quali sono le cose giuste, compresa questa. Lascia perdere che probabilmente lei è la persona migliore che tu abbia mai incontrato e che nessuno ti capirà e riuscirà a sopportarti come lei quella è la conseguenza delle tue scelta. Devi solo esserne consapevole, tutto qua.

Bernardo spostò lo sguardo, che prima andava oltre la mia spalla destra, dentro i miei occhi. Dopo un secondo lo girò intorno e annuì con la testa, in un gesto di assenso e comprensione. Pensai che quando si stabilisce un forte rapporto, personale e intenso, come solo tra padre e figlio ci può essere, le parole vengono mitigate dall’imbarazzo e al loro posto i gesti bastano a rispondere e chiarire ogni cosa.

− Ora andiamo che facciamo tardi − disse. E dopo essersi guardato allo specchio, mi fece un sorriso e mi lasciò nella stanza.

Allo specchio il mio viso era sempre lo stesso e la schiena robusta e ancora forte. Era come non sentirli quei sessantuno anni e mezzo. Che gran botta di culo. E poi con quel vestito di lino a coste, manco ve lo dico, facevo un figurone. Ma che cazzo di pensieri stavo facendo, che avevo appena detto a mio figlio la cazzata del secolo. Poteva sembrare un ottimo consiglio, quello pronunciato poco prima, ma non era così. Me ne ero uscito bene, cedendo a lui l’immortale fiaccola della conoscenza di se stessi. Ma era pura finzione, una condanna senza appello. In realtà me ne ero lavato le mani che manco Ponzio Pilato con Gesù Cristo. Non avevo dato una risposta, avevo coperto i suoi occhi con un opaco velo di paterna fiducia, ma in fondo avevo sentenziato con raffinato stile che non era affar mio dirgli se sposarsi o meno. Ovvio che avevo stima nei suoi confronti, ci volevano le palle a sopportare le mie stranezze e sempre ovvio che avevo davvero fiducia nelle sue scelte, finora sempre ponderate. In fin dei conti quella frase era servita più a me che a lui. “Cammina con le tue gambe e pensa con la tua testa”, una vera stronzata da Baci Perugina.

Dimenticai l’accaduto e pensai che comunque mio figlio avrebbe fatto tesoro di quella frasetta banale, ma pur sempre sensata. Mi consolai pensando che l’intelligenza di Bernardo si manifestava sempre, in un modo o nell’altro e in quell’occasione si era palesata nell’invitare, oltre ai suoi più cari amici, che erano parecchi, anche i miei. Lo aveva fatto per tre motivi, il mio ragazzo. Il primo, per non farmi sentire a disagio, unico attempato in un mondo di giovani rampanti. Il secondo per non far sentire a disagio loro. Il terzo perché pagavo io.

− Ma che vestito ha scelto la sposa?

− Perché, che c’ha, non ti piace?

− Mi sembra un po’ strano.

− Giovà − disse Vincenzo Guerra − a te tutto strano ti pare, sempre. Sarà che vedi nelle cose quello che non vuoi capire in te.

− O in tuo figlio − aggiunse cattivissimo Pucci.

− Siete due coglioni.

− Oh, ma che è sto linguaggio in chiesa? − bacchettò tutti Vera Sardina, dalla fila dietro di loro.

Li vedevo agitarsi quando mi giravo a guardarli dalla prima fila e mi sarebbe piaciuto stare tra di loro a sentire quelle battutine, che si possono sentire solo tra le panche delle chiese, durante le funzioni. Mi avrebbero certo distratto dalla figura di Eleonora. La mia ex moglie stava seduta all’altra punta della panca, vicina al suo nuovo marito e alla figlia diciassettenne. L’aveva avuta il 25 aprile del 1981, proprio il giorno dell’anniversario del nostro matrimonio, come a volerne cancellare ogni traccia anche dalla memoria, alla difficile e lodevole età di quarantasette anni. Non mi aveva degnato di mezzo sguardo, neanche quando a casa ci eravamo trovati a pochi metri per le foto. Un “ciao” abbozzato di sfuggita e la cosa era morta lì.

− Guarda quanto spreco di riso. Ma che usanza inutile e dispendiosa.

− È la durevolezza delle tradizioni, Vincenzì, quelle non le scardini manco col piede di porco. Sono indistruttibili. E tu che sei di Genova dovresti saperlo.

− A me è venuta fame − disse Giovanni, che due cose aveva avuto in dono dalla vita, la medicina e l’inopportunismo.

− Ma scusa, Firmà − intervenne Ermanno Pietra, dall’alto della sua flemma di economista e docente di filosofia, − i genovesi sono famosi per la loro tirchieria, mica per le tradizioni.

− Ermanno mio, mi riferisco al Palio di San Pietro. Vincenzino non se ne perde uno.

− Ora ti sei spiegato.

− Ragazzi, ho una fame pazzesca − ribadì nuovamente Giovanni, visto che nessuno se lo era cagato.

E cosa aveva detto il povero Giovanni Pelitti, aveva solo esternato quello che forse tutti cominciavamo a percepire, lo stimolo prepotente della fame che ti smuove verso le quattro e mezza, cinque del pomeriggio, l’ora di nessuno. Ma suo fratello Alvise, che noi chiamavamo Gigi, stava vivendo uno di quei suoi momenti di massima tensione emotiva e quindi, come giustamente e in quel preciso contesto nessuno mai si aspettava, esplose. − Eh, Giovà, ora né che ci devi tartassare. Ti tieni la fame e stai zitto. E che cazzo. Ho fame, voglio mangiare, datemi da bere, vuoi che ti puliamo il culo se devi cacare? E che hai sei anni? O taci e dici solo cose interessanti o sali in macchina con qualcun altro.

− Ma se sei venuto tu con me − ribatté timido Giovanni.

− Io non ci posso credere che devi sempre essere così inopportuno − continuò lui, non calcolandolo, − sei inopportuno, lo capisci? Inopportuno e basta.

− Sarà un matrimonio bellissimo − sentenziò Pucci dalle retrovie, mentre Giovanni era piombato nel silenzio, zittito dalla foga incontrollabile di suo fratello.

Cercai con lo sguardo Eleonora, ma si perse nella folla che si dirigeva verso le macchine, per raggiungere il Parco del Valentino, dove avremmo passato il tempo che ci separava dal ristorante. Mi chiedevo il motivo della ricerca di quello sguardo. Non aveva senso, la benché minima logica. Ma ero sempre stato un tipo che ricercava il possibile nell’impossibile o ancora meglio il probabile nell’improbabile. Un insoddisfatto cronico. Questo non vuol dire che non abbia avuto successo, anzi, è proprio il contrario. E più mi andava bene e più, da bravo stronzo quale sono, cercavo di finire in situazioni complicate, difficoltose, anche a scapito di altri. Da quelli così bisogna stare lontani e per mia fortuna, la gente faceva sempre il contrario.

Comunque, il Parco del Valentino non ci aveva dato niente di più che un caldo infernale, bambini che si rincorrevano grazie a mamme distratte e continue salite e discese.

− Aò − esordì Nanni, grondante sudore come se fosse uscito fresco dalla doccia, − ma come cazzo fai te a non sudà pe niente, me se stanno a squaglià pure li denti.

– Immagina che le previsioni mettono ancora più caldo, per stasera.

– Inutile, quann’è giornata de pijallo ner culo, er vento sta là ad arzarte la camicia.

Io accennai un sorriso, senza aggiungere niente. Mi sorprendeva sempre la sottile linea che divideva quello che era considerato, a livello nazionale, come uno dei migliori avvocati in circolazione, dal prototipo del burino per eccellenza, figlio del sobborgo più turpe della capitale. E come ogni burino che si rispetti, in effetti, il Limoni era venuto dal nulla. In pratica si era fatto da sé, nel vero senso della parola, prima a suon di studio e diligenza e, una volta raggiunto l’apice del successo, a suon di cocaina. Ora se ne poteva bellamente fottere di tutto e di tutti.

− Te faccio ride, Firmà. Ma li mortacci tua e de sta città che sembra fredda, ma in estate te fa sudà er sottopalla, che nun se po paragonà manco a quella vorta sur vespino a Porto Cervo. Te ricordi quella vorta, Firmà?

− E come, no − risposi, concentrato a prendere posto al tavolino di uno dei tanti bar del parco. Mentre i fratelli Pelitti, Pucci, Ermanno e Vincenzo facevano lo stesso.

− Non credi che dovresti edulcorare un po’ il tuo linguaggio − esordì drasticamente quanto inopportunamente Giovanni, riesumato dal silenzio tombale che suo fratello gli aveva imposto e che lui aveva diligentemente mantenuto fino a quel momento, − sei un avvocato, perdio. Invece parli come un coatto.

Nanni lo squadrò come un’upupa pronta a divorare un lombrico, indeciso se adottare la forma comunicativa del silenzio, pratica degli altezzosi o altresì degli indecisi o dare sfogo alla parola, arma più che dei dotti, dei capaci. Preferì utilizzare la seconda e con l’abilità che lo contraddistingueva da sempre e una flemma impareggiabile, avrebbe potuto sciorinare un panegirico così cazzuto che se ci fosse stata tutta l’Agorà ateniese, gremita in pompa magna di ogni genere di filosofi dissertanti e affamati, questa lo avrebbe eletto all’unanimità generale a vita che Pericle, levati proprio. Invece si limitò e parlò con calma piatta. − Sono pressoché certo che non ti starai riferendo al sottoscritto, poiché primo, con questa bocca ho detto e fatto cose che tu non hai mai osato nemmeno leggere sui libri, che se lo facessi diventeresti paonazzo e verresti inondato da una brama erettiva che tua moglie potrebbe cominciare a chiedersi se davvero non abbia sposato un uomo. Secondo, il termine coatto, che per la cronaca possiede un’etimologia latina derivante dal greco giuridico, che con il mio mestiere c’entrerebbe non poco, si riferisce comunque all’ambiente malavitoso e io al massimo quelli li difendo. Quindi anche in questo caso, hai fatto un buco nell’acqua. E mo’, se hai ancora da cacà ‘rcazzo, fallo dopo che avemo bevuto che me devo dà na rinfrescata ar gargarozzo. − Così dicendo ordinò il suo drink.

− Giòva, certo che oggi, come ti muovi, pesti una merda − chiuse il discorso Pucci, per la seconda e non ultima volta nella giornata.

Ora eravamo al ristorante e fortunatamente gli sposi non si erano fatti attendere. Mio figlio aveva avuto buon gusto anche in questo e la sua bella sposa adesso se lo portava in giro a intrattenere gli ospiti. Una parte di me pensava a Marinella, ma l’altra parte era quasi contenta che non ci fosse. Giorni prima Bernardo mi aveva detto che sarebbe stato sconveniente portarla alla festa, sia perché aveva più o meno l’età della sposa, il che faceva strano anche a me e sia perché era stato invitato anche lo zio, nonché mio amico, Salvatore Pedante, fratello della mamma di Marinella, che aveva giustamente declinato l’invito e da due anni non mi parlava più. Ma queste motivazioni erano niente, se si mettevano a confronto la mia relazione con una ventiseienne, con quella consolidata di Eleonora, con un uomo affermato come Domenico Vizio.

− Alla fine, Tore non è venuto.

− E ha fatto bene, neanche io sarei andato.

− Ma è sempre incazzato con te? − chiese Pucci, conoscendo già la risposta.

− Mi vuoi coglionare? Lo sai che se mi potesse ammazzare, lo farebbe.

− Ma perché non si rassegna − intervenne Vincenzo, che quando si parlava di dissolutezza cominciava a sbavare e a infilarsi una mano in tasca, − la giovane non è poi così giovane. Ha fatto le sue esperienze, è matura e si deve fare la sua vita. Che male c’è?

Tutti a quel tavolo rotondo da matrimonio, compreso io, lo guardammo con comprensione e accondiscendenza. Era fatto così, il nostro Vincenzo, prendere o lasciare. E noi dovevamo prendere le sue sparate per come ci venivano elargite, un po’ come si prendono i raffreddori d’estate. Non sai qual è il motivo, è difficile curarsi, ma a mare ci vai lo stesso.

Ora voi che starete ascoltando da sto benedetto mangianastri, starete facendo confusione ed è giusto ricordarvi chi erano gli sventurati seduti al tavolo, come a scuola i ripassi sono inutili solo per i sapientoni. Alla mia destra c’era Pier Crescenzo Vespucci, in arte Pucci, pubblicitario e fine intellettuale. A seguire Giovanni Pelitti, il mio psicologo, non dichiarato gay e padrino di Bernardo, con a fianco la moglie Priscilla, la donna più rompipalle del pianeta e il figlio quattordicenne Giorgio, divorato dall’acne e dalla morbosità materna. Proprio accanto a lui, e questo era un problema per i suoi nervi, il mio avvocato Nanni Limoni. Poi il fratello di Giovanni, l’irrequieto e irruento ambasciatore Alvise Clodoveo “Gigi” Pelitti, poi Vincenzo Guerra, docente di lettere, provetto pescatore e come detto prima, degenerato senza fondo e a tenerlo buono, l’economista Ermanno Pietra, il cosiddetto uomo della pace, con a fianco la bellissima moglie Lucia, adornata dal mistero che ci faceva chiedere a tutti, cosa ci avesse trovato uno splendore simile in Ermanno. A chiudere il cerchio c’era la mia amica Vera Sardina, che fortunatamente mi teneva ancorato a terra, lontano dal fare stronzate. Tutti gli altri non erano potuti venire, per un motivo o per un altro. Alfonso Brusìo, l’uomo della mossa, teneva il locale che aveva con Vera, Clementino Schioppa era tornato a fare spettacoli comici in giro e Giuseppe Calonì collaborava con Ligabue, che stava girando un film dal titolo Radiofreccia.

− Fermi tutti − ci zittì Giovanni, mentre gustavamo il buffet d’apertura − ma sbaglio o quello è Umberto?

− Umberto chi?

− Tozzi. Quello è Umberto Tozzi. Che ci fa qui?

− Non ti agitare Giovà, che ti spettini tutto. Canterà qualche canzone dell’album nuovo e qualche suo successo dopo cena. Mi pare che si chiamerà Aria e Cielo. È qui perché mio figlio lo conosce molto bene.

− Io avrei preferito solo un quartetto d’archi − disse Pucci, − a me sta cosa del cantante non mi piace tanto.

− E c’è pure quello e non sai chi è il primo violino.

− Sentiamo.

− Dania Castelvecchio, che definire talento sarebbe oltremodo riduttivo.

A quel nome Pucci s’illumino. Vera mi fece piedino sotto al tavolo tanto era scioccata. Fu una cosa visibile, chiarissima. Ce ne accorgemmo tutti e se per tutti fu una sorpresa, per me fu la conferma. Il Pucci nascondeva davvero, sotto quella sua scorza altezzosa e ridondante, un’anima buona, pura, delicata come la prima neve. E si sa, quando il sole picchia sulla prima neve, ci sono pochi cazzi, quella si scioglie. E Dania Castelvecchio non era il Sole, era una Supernova. Quando cominciarono a suonare, spaziando nel loro repertorio, il tempo sembrò rallentare fin quasi a fermarsi e noi riprendemmo le nostre conversazioni, gustandoci le varie portate, al tempo di quella sublime musica, capitanata da quel primo perfetto violino.

A cena inoltrata vennero a trovarci al tavolo i due novelli sposi, per il classico rito di saluti. − Alba, questi sono i miei zii. − Era così che mio figlio chiamava i miei amici, in fondo era cresciuto anche con ognuno di loro e sia per confidenza che per educazione, al loro nome anteponeva quel sostantivo familiare.

– Un brindisi agli sposi – disse Vera, alzando il bicchiere di vino e invitando tutti quanti a fare lo stesso.

– Dio mio – disse Giovanni, – se bevo ancora un po’ chi ci arriva a casa.

– Ma guarda che ancora è lunga, eh.

– Lo so, ma che posso farci.

– A Giovà, se er vino nu lo reggi, l’uva magnatela a chicchi.

Quando se ne andarono, non prima di aver fatto qualche foto, tornammo a mangiare.

Amò − così mi chiamava Vera quando la situazione lo richiedeva, notando i miei sguardi che indugiavano sempre di più sul tavolo posto dall’altra parte del terrazzo del ristorante, − ma che ti guardi, Eleonora. Così ti fai solo del male, lascia perdere.

− E come faccio, ma lo vedi quant’è bella.

− Sarà pure bella, ma non ti devi dimenticare anche quant’è stronza.

− E proprio per questo che è così bella − le risposi, cercando altro vino da mandare giù, − perché è stronza.

− Aò e mo’ basta, però − tuonò improvvisamente Nanni, − m’hai proprio rotto li coglioni.

Le sue parole, scandite con una possanza inaudita, discordavano nettamente con l’atmosfera che il quartetto aveva creato, fino a farmi credere che si riferisse allo scambio di battute che sottovoce avevo avuto con Vera, che forse così sottovoce poi non era stato, ma mi sbagliavo e ci volle poco a fare chiarezza. Per tutto il tempo Priscilla, la moglie di Giovanni, aveva continuamente imbeccato il figlio, dirigendolo meticolosamente in ogni singola mossa. Dal tovagliolo impeccabile sulle ginocchia, alla forchetta impugnata decorosamente, dal cravattino perfettamente parallelo al colletto, alla schiena dritta e poggiata sulla spalliera. Gli aveva persino detto di non grattarsi i genitali, in un momento di irresistibile prurito fanciullesco, causato da un’immobilità da museo delle cere. Tutto questo lo scoprimmo perché Nanni lo gridò, esausto, a pieni polmoni, intramezzando il tutto con una sequenza di bestemmie che soltanto a ripensarle, da un lato sento premere la vescica e dall’altro mi aspetto che il demonio in persona mi possa bussare alle spalle con un taccuino in mano e l’aria da scolaretto.

− Mannaggia la M……, ma come cazzo fa a sopportàtte sto demente de tu marito. Ma poràccio lui e poràccia sta creatura de tu fijo. E te credo che je sta a scoppià ‘a faccia de brufoli e de pus, se nun se pò manco grattà li coglioni − e qui seguiva il plateale gesto appena descritto. − Se fossi stata co me, porcaccio de C….., ‘tavrei dato du pizze de rovescio messe bbene, che pe trovàtte se doveva chiamà Chi l’ha visto. Li mortacci tua e di chi nun te ce manna a fanculo, te mangiassero l’ebrei.

Il silenzio calò imperante e funereo, come se tutti ci aspettassimo qualcosa da un momento all’altro, ma scioccati com’eravamo nessuno riusciva ad elaborare alcuna possibile ipotesi. Nanni aveva dato il meglio di se in tutti i sensi, prima e dopo, dimostrando in un modo che andava al di là di ogni nostra più fervida immaginazione, di possedere un impareggiabile e poliedrico talento comunicativo.

Il quartetto, per mio dispiacere e soprattutto per quello di Pucci, smise di suonare e tutti restammo fermi, non sapendo cosa sarebbe accaduto. Priscilla, l’oggetto del desiderio di Nanni, rimase all’apparenza imperturbabile, sprofondata nel più assoluto mutismo. Poi, con una lentezza che replicare sarebbe impossibile, torse il capo dirigendo lo sguardo da un’insipida insalatina agli occhi del suo aggressore. − Se hai finito di dare spettacolo e renderti ridicolo, possiamo continuare la serata. − E come se nulla fosse successo, aggiustò i polsini di suo figlio Giorgio e chiese a suo marito Giovanni di passarle l’aceto.

− Grandiiiii − irruppe gridando il suo famoso motto Calogero Clava, il corpulento e gioviale organizzatore del catering che si occupava del matrimonio, inconsapevole di ciò che era successo. Aveva esordito dalle cucine con due vassoi di ostriche, seguito da una stola di camerieri, che arrancavano a tenere il suo passo. Come se l’evento precedente fosse stato chiuso in una bolla e spedito dritto all’altro capo dell’universo, al grido di Calogero, tutti quanti, all’unisono, come sganciati dal tasto pausa, ripresero da dove erano rimasti. Dania e le altre riattaccarono a suonare, Nanni tornò seduto, gli altri a mangiare ed io a indugiare su Eleonora.

− E adesso, ostriche − esordì al nostro tavolo, poggiando due vassoi strapieni di ostriche, dopo aver servito ovviamente gli sposi. − Ed ecco del Muscadet, accussì sinni calanu suli suli e per il nostro intenditore − precisò, guardando Vincenzo, mentre toglieva dalle mani dei due galoppini che gli stavano sempre dietro altre bottiglie, − Vodka. Mi raccomando, picciotti, mangiativilli a facciazza me e di Cannavacciuolo, ca ancora è misu ca cucina attipu schiavu. U stati facennu nesciri pazzu. Mangiati ca si callianu. Grandiiiii.

Calogero Clava era di origini siciliane, di un paese di nome Palma di Montechiaro e insieme a un altro grande palmese, Geppo Cannavacciuolo, uno straordinario chef, avevano esportato la grandezza della cucina siciliana in tutta Italia.

− Ma che lingua è? Che ha detto? − chiese Gigi.

− È siciliano. Ha detto che con il Muscadet le ostriche vanno giù che è un piacere − spiegò Vincenzo, − e che ce le dobbiamo mangiare alla faccia sua e di Cannavacciuolo che sta ancora sui fornelli e visto il menù sta impazzendo e sta lavorando come uno schiavo.

Ma è terribile.

− Lo capisci anche tu, che è un modo di dire.

− Un brutto modo di dire − si difese Giovanni.

− Vabbè, lasciamo perdere. Ha anche detto che per il caldo, dobbiamo sbrigarci a mangiarci le Ostriche.

− Un attimo, c’è Cannavacciuolo in cucina? Geppo Cannavacciuolo?

− Precisamente − intervenni io − e secondo te ste delicatezze che hai mandato giù durante tutta la serata chi le ha cucinate? Ti lascio scegliere, Gesù Cristo in persona oppure lui.

− E presentamelo, ti prego.

− Lo vado a chiamare e torno − disse Calogero, tornando in cucina e lasciando Gigi con il sorriso stampato sul volto.

− Le ostriche sono sopravvalutate − disse Pucci, in un momento di ritorno dal mondo dell’estasi musicale, nel quale lo avevamo perso poco prima.

− Ma che cazzo dici, Pucci, queste sono Belòn. Le migliori possibili.

− A luglio?

− Queste sono freschissime, ti puoi fidare. Ne ho mangiate a chili, anche da piccolo mentre facevo il bagno, specie in Sicilia, buonissime.

− Pe mme sanno de muco, acqua de mare e limone − disse Nanni.

− Io preferisco i ricci di mare − disse Giovanni, entrando nel vivo della discussione − o al massimo le vongole.

− ‘Enfatti, c’ha ragione Giovanni, so mejo ‘e vongole o i ricci e ce metto pure ‘e cozze. Nun ce scordamo ‘e cozze. Ma le ostriche, no. Nun me dicono ‘nniente.

− È vero − di nuovo Pucci − cozze e vongole regnano sempre.

− Allora le cozze crude, perché la competizione deve essere tra pari. Ostriche crude e cozze crude. Micidiali.

− Se, cozze crude, pe fatte venì l’epatite. A Vincenzì, ma che cazzo stai addì?

− Ne ho fatte mangiate con mio cugino. Una volta scendevamo giù da Genova per la Sicilia e ci siamo fermati dalle parti di Senigallia. Abbiamo fatto un bagno in mutande, raggiunto i moletti davanti la spiaggia e banchettato con cozze crude e birra ghiacciata, comprata nei chioschi, a labbro di mare.

− Sembra una scena del film “L’uomo delle stelle” di Tornatore. − disse Ermanno, in uno sprazzo d’ironia e partecipazione, con in bocca la terza ostrica.

− Ragazzi − intervenni, mandandone giù una − ma dove lo lasciate l’immaginario collettivo? Il mito immortale dell’ostrica. L’idea.

− Lascia perdere, Firmà, niente cinema enogastronomico a questo tavolo. Nel Medioevo chi mangiava ostriche veniva arso vivo e questi parlano a vanvera. Bisogna rispettare i morti, almeno.

− A me non piacciono le ostriche − intervenne ancora Giovanni − e ancora meno delle ostriche mi piacciono le cozze. Quelle hanno una forma che mi fa davvero ribrezzo.

− E te credo − rispose pronto Nanni, facendo andare le ostriche di traverso a chi in quel momento le stava mangiando.

Quella discussione fu interrotta dall’arrivo di Cannavacciuolo. Un ragazzone imponente, simpatico e di una squisitezza straordinaria. − Ho saputo che avete chiesto di me.

− Ciao Chef − intervenni, − questi sono i miei amici e volevano conoscerti. Soprattutto Gigi.

− Piacere − disse lui, dando la mano a Gigi.

− Signor Cannavacciuolo, volevo farle i complimenti per la sua cucina. Ho mangiato divinamente una volta, con l’ambasciatore francese, in un suo ristorante, la Montagnola.

− Spero vi siate trovati bene.

− Assolutamente.

Non avevamo mai visto Gigi così cordiale con qualcuno, come se la sua istintività, che lo contraddistingueva, fosse stata convogliata tutta e subito, in un flusso di placida e mansueta giovialità. Suo fratello Giovanni era rimasto a bocca aperta.

− Se quest’estate vi organizzate e scendete in Sicilia, siete tutti invitati al mio nuovo ristorante “Il Signore di Salino”. Noi qui siamo in trasferta, in questa terra dai sapori montani, tra funghi e formaggi stagionati, in onore di amicizia e amore per il buon cibo, abbiamo portato i sentori del sud, la freschezza del nostro Mediterraneo, la giovialità dei nostri sapori. Firmato − mi disse − basta che mi fai sapere prima che mi organizzo. Più siamo, più ci divertiamo.

E con questo saluto, si congedò. Giovanni era ancora sbigottito, ma non poteva farsi sfuggire l’occasione presentatagli su di un piatto d’argento e quindi ci provò. − Gigi − esclamò verso suo fratello, guizzante come non era mai stato, ma come aveva sempre desiderato fare − fratellino, e come mai d’improvviso tutte ste moine, che ti sei rammollito tutto a un tratto − chiuse, cercando invano i nostri sorrisi complici, fiducioso di aver assestato un colpo anche lui, finalmente.

Aveva commesso uno dei più grandi errori della sua vita, era stato inopportuno nell’unico momento di umanità che aveva mostrato suo fratello e Gigi, che non la perdonava praticamente mai a nessuno, non seppe resistere e decise di distruggere suo fratello con un colpo di fioretto dritto e penetrante alle fondamenta del suo orgoglio prima e del matrimonio poi. − Tu stai zitto, che non mangi cozze perché assomigliano alla fica.

Eravamo quasi alla fine. Anche dopo quell’episodio Priscilla era rimasta immobile, ma stavolta qualcosa si era mosso. Era percepibile. Per la seconda volta Vera, che per certe cose aveva un sesto senso, un dono, mi toccò la gamba sotto il tavolo. Ma forse, con quell’uscita, Gigi aveva indirettamente salvato la vita di suo fratello. Anzi era proprio così, perché il mare, anche dopo la più terribile delle tempeste, potete giurarci, torna molto più calmo, bello e colorato di prima.

Quando il quartetto smise di suonare e si alzò, Pucci si girò di scatto verso di noi. − Devo parlarle − esclamò, riferendosi ovviamente a Dania Castelvecchio, − per forza, non posso perdere quest’occasione − e senza aspettare una replica, bevve un sorso di vino e si diresse verso di loro.

Lo seguimmo con lo sguardo, nella sua andatura tipica, ma che stavolta possedeva qualcosa di strano, di incerto. E ora era lì, l’aveva fermata. Lei si era girata e stavano parlando. Probabilmente si era presentato e magari ci stava provando, lui parlava e parlava e parlava e lei annuiva. Poi si sbottonò il polsino della camicia e scopri il braccio, mostrandole qualcosa. Ora lei aveva detto qualcosa ed era lui a sorridere. Da lontano sembrava il solito, ma non era così. Non era affatto così. Noi eravamo inconsapevoli di stare assistendo al momento più importante della vita di Pier Crescenzo Vespucci. Non sapevamo che quello era il momento più alto della sua vita. Non a livello sentimentale, intendiamoci, ma a livello umano.

Infatti, solo dopo scoprimmo che era stata quella straordinaria musicista, con la sua musica divina a lasciargli qualcosa dentro, nei pressi del luogo in cui nascondeva con tanta dovizia la sua anima, che quando veniva fuori, sempre troppo poco spesso, sapeva volteggiare in punta di piedi e incantare tutti. Purtroppo non mi svelò mai cos’era quel qualcosa che era sbocciato in lui, molto tempo prima di quel momento, quando ancora non ci conoscevamo nemmeno. Non volle mai dirmelo e io non lo chiesi mai, consapevole che ci sono parti della nostra vita, segreti inconfessabili, belli o brutti che siano, che è nostro dovere tenere solo per noi e non rivelare neanche sotto tortura, per nessuna ragione al mondo. Quei segreti sorvegliano la cosa più cara che abbiamo, che ci rende quello che siamo. Quei segreti custodiscono le nostre imperfezioni.

− Ma che le hai detto? − gli chiese Vincenzo quando tornò al tavolo, si sedette in silenzio e si versò del vino.

Lui, ancora preso e come perso in quel momento vissuto e inaspettato, ci svelò soltanto l’ultima parte di quella breve conversazione. − Le ho semplicemente detto grazie. Grazie per quello che ha fatto con la sua musica, a me e di certo a molti altri.

− E poi − continuò Vincenzo impaziente, già un po’ deluso dalle parole di Pucci che era, chiaramente, su di un’altra dimensione.

− Poi le ho fatto una domanda.

− Quale?

− Le ho chiesto cosa fosse per lei la musica.

− E lei che ha risposto? − domandò questa volta Ermanno.

− Ha risposto che non lo sa.

Finite le ostriche e finita la poetica musica di Dania, venne il momento di Umberto Tozzi, che si lanciò in una decina di canzoni, come regalo agli sposi. Alcuni ballavano, altri erano assorti da quel piccolo concerto privato, altri ancora continuavano a bere. Quando arrivò la fine della serata, sulle ultime canzoni, cercai gli sposi con lo sguardo e vidi mio figlio in un angolo, che parlava con il nuovo marito di Eleonora e gli chiedeva palesemente di aggiustargli il nodo della cravatta. Mi nascosi dietro un gruppo di persone come se avessi rubato qualcosa, invece, più semplicemente, mi resi conto di aver perso qualcosa. Di aver perso troppe cose. Quasi a voler confermare l’ipotesi appena formulata, mentre tutti si dirigevano verso Tozzi che aveva cominciato a cantare, “Quasi quasi”, canzone del suo ultimo album non ancora uscito, una mano bussò delicatamente sulla mia spalla.

− Hai perso qualcosa? − chiese Eleonora. Ed io mi sentii piccolo piccolo.

− Nulla che abbia valore − mentii, mostrandomi invulnerabile, quando invece avevo solo voglia di piangere.

− Meglio così, allora. Come stai? − chiese, spostandosi sulla balaustra in marmo che si affacciava sulla città illuminata per conquistare un po’ di intimità.

− Bene. Sto bene. Vivo bene. − Parole inutili. Tutti quelli che rispondono bene alla domanda “come stai” o sono dei bugiardi o sono dei vigliacchi. Io in quel momento ero entrambi ed ero anche un coglione, perché l’avevo ripetuta non una, ma ben tre volte. Tre volte coglione. − E tu, come stai?

Ed ecco la risposta giusta, cioè tutto tranne che “bene”. − Vorrei diventare nonna.

Chiara e limpida. Precisa e decisa. Non le parlavo da tempo e dovevo riprendermi. Mi sentivo come in dovere di dare il meglio di me. Di farle capire che quell’altro non contava un cazzo, che io ero di gran lunga migliore e che se voleva essere nonna, l’unica nonna, il nonno numero uno sarei stato io.

− Magari gli faremo fare delle belle passeggiate lungo il Po o nelle campagne bagnate dalla Dora, ti ricordi?

− Sì − sorrise, − mi ricordo.

L’avevo fatta sorridere. Stava ripensando ai bei tempi. Ma dovevo stare attento, giocarmela bene. Perché i bei tempi sono pericolosi. Se da un lato ti mettono nostalgia, che fa sempre bene, dall’altro possono trasformarla nella sua acerrima nemica, la tristezza. E quando la nostalgia diventa tristezza, c’è poco da fare, si comincia a morire lentamente e va tutto a puttane.

Restammo un attimo lì, a guardare il panorama, mentre adesso l’Umberto nazionale assestava il colpo definitivo a tutte le coppie presenti con “Dimentica dimentica”, canzone capace di sciogliere i cuori anche a chi non ascoltava. Noi eravamo lì, in silenzio. Cercai quindi di incalzare un po’, per evitare tempi morti e non far trasformare, come ho detto, la nostalgia in tristezza. − Elle − la chiamai, come avevo sempre fatto solo io.

Lei si girò senza dire niente. E lì dovevo assestare il colpo. Forzare la nostalgia nel passo successivo, farla diventare rimpianto. Certo, correndo il rischio di tramutarla in rimorso, la fine di ogni cosa, ma dovevo provare. Dovevo sapere. Una parte di me si chiedeva perché lo stessi facendo. Cosa volessi ancora da quella donna. Ma l’altra doveva sapere. Quindi ripensai al passato e alle nostre conversazioni e confidenze, tornando alla parte più bella, vera, viva e irripetibile che ci possa essere in un rapporto. In qualsiasi rapporto umano: l’inizio.

− Elle, sei ancora capace di percepire la bellezza del mondo?

− Solo quando accarezzo i miei gatti.

Aveva capito tutto, la mia Elle e io non avevo capito un cazzo. Non aveva bisogno di me o del ricordo di me, né del suo nuovo marito tutto battute facili, radiografie e viaggi per il mondo. Eleonora aveva bisogno solo dei suoi gatti, per percepire la bellezza del mondo. Magari tra quei gatti avrebbe messo anche suo nipote e poi, quando sua figlia avrebbe fatto un bambino anche lei, ci avrebbe messo pure quello, tra i suoi gatti. Tutti assieme. Ed era perfetto così. Gatti, nipoti e niente di più.

− Ti saluto, Elle − le dissi seccamente e le diedi un bacio sulla guancia. Aveva lo stesso fresco e maledettissimo odore di quando la portavo a passeggiare per le colline.

Lei ricambiò il mio bacio. − Stammi bene, Firmato.

Che volete farci, la vita è così e se si combatte con la vita e si crede di poter vincere, bisognerà vedersela con la sua imprevedibilità e tenerne seriamente conto. Altrimenti non c’è scampo e in quel caso non c’è niente da fare, a vincere sarà sempre lei. Mille e più volte ci si potrà provare, ma la vita non si batte, mai e in nessun caso. Le cose che ci capitano, se siamo fortunati, ci danno delle opportunità. La vita stessa è da considerare come un’opportunità e il più delle volte noi, poveri illusi, che ci crediamo conoscitori di tutto, falliamo miseramente, perché la scambiamo per una certezza.

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